interpreti P. Domingo, E. Semenchuk, I. D’Arcangelo, J. Guerrero direttore James Conlon orchestra Opera di Los Angeles regia Darko Tresnjak regia video Matthew Diamond formato 16:9 sottotitoli It., Ing., Fr., Ted. 2 dvd Sony 88985403579 prezzo 20
Ho un po’ perso il conto (nove, credo), di quanti ruoli verdiani scritti per baritono siano stati affrontati da Domingo. Nessuno capace di lasciare davvero il segno, tutti accolti da grande successo di pubblico, quindi il pallottoliere è probabile s’arricchirà ulteriormente. Ormai frusta ogni considerazione su quanto sempre tenorile sia la sua voce, non importa quanta brunitura possieda il colore timbrico, e ancor meno su quanto corretto o meno sia il meccanismo “baritonale” del passaggio di registro. Resiste sempre, si capisce, un brandello di ammirazione per la longevità vocale (non c’è la minima traccia di quel vibrato che, per dire, affligge così tante voci di trentenni), ovvio portato d’una tecnica impossibile a negarsi pena il ridicolo. Ma resta altresì immutato il rimpianto per quanto avrebbe invece potuto fare una personalità artistica come la sua alle prese con le parti baritonali verdiane: scegliere due o tre ruoli al massimo, sviscerarli col concorso dei direttori e registi migliori su piazza, offrendo così ottiche interpretative molto personali (e dunque meritevoli di ricordo ben maggiore del semplice “ha fatto anche questo”) di conserva a utili considerazioni su quanto, come e perché, la vera voce baritonale pensata da Verdi abbia a essere d’impasto chiaro. Niente. Spettacoli di banalità desolante, nei quali mortificata è proprio quella capacità di stare in scena che è sempre stata qualità peculiare di Domingo: e scarsa propensione a lavorare a fondo coi (sporadici) direttori di conclamata bravura che pure ha incontrato in questa sua seconda carriera. Il presente Macbeth californiano dell’anno scorso non solo non fa eccezione: ne è conferma delle più tristi.
Lo spettacolo sembra una parodia di certi film hollywoodiani in costume anni Cinquanta. Pelliccione, coronone dorate a punte, spade e spadoni, grande aprirsi di mantelli e mantelline, boccali enormi di elaborata quantunque sempre pacchianona fattura. Tutto un andare e venire ma soprattutto stare, con gran sorrisi a bocca larga e mani a brocca, recitazione rigorosissimamente frontale. Diversi “prestiti” a cominciare dalle streghe onnipresenti in ogni stazione narrativa, clonate in figure seminude pittate di grigio striscianti su muri e pavimenti come nel Macbeth cinematografico di D’Anna; e ancor più numerose cadute nel più sfrenato e patetico dei comici involontari, come le testone giganti sopra gambette da bambino che caracollano a destra e a manca nella scena delle apparizioni; o come la Lady che interrompe l’incalzare del duetto seguente l’assassinio di Duncan per scappare in quinta a prendere uno dei suddetti boccali onde offrire al marito un cicchetto ricostituente (e al supposto baritono, in difficoltà di fiato, un confortino). Un peccato, questo perenne e totale anticlimax scenico, perché limita parecchio una direzione che già deve fare i conti coi continui fiati rubati del protagonista: nei limiti del possibile, però, tesa, flessibile, capace spesso di creare quell’atmosfera drammatica di cui la scena latita in toto.
La linea vocale di Domingo è sempre più stanca man mano che la serata procede: il senso della parola non manca, tuttavia, e diverse inflessioni mostrano quanto si sia impegnato a fondo nell’affrontare simile personaggio, trovando – a fianco dei due faticosissimi concertati e d’un duetto in cui ci si aspettava ben altro gioco di chiaroscuri – un fraseggio notevole nel “Pietà rispetto amore” e notevolissimo nella ripristinata “Mal per me chi m’affidai” conclusiva. Di robusto spessore la voce di Ekaterina Semenchuk, ennesimo mezzosoprano alle prese con una tessitura diabolicamente ambigua (i soprani debbono avere fior di gravi e un medium di roccia; i mezzosoprani, a parte il re bemolle del sonnambulismo, devono vedersela con pestifere fiondate all’acuto) di cui viene a capo con stridii non eccedenti in alto, discreta disinvoltura nelle agilità del brindisi, e in generale uno sfruttamento piuttosto sagace del registro centrale, dove mette in mostra un colore cupreo più che notevole: un tantino risaputo il fraseggio, purtroppo, risolto più con diligente scolpitura di dizione che con personale fantasia d’accenti. Accento, peraltro, che latita vistosamente nella pur bella linea di Ildebrando D’Arcangelo e in quella viceversa frammentaria e disordinatissima di Joshua Guerrero. Orchestra eccellente, coro un po’ meno (e Gesù, quanto recita male!), parti di fianco discrete.
Elvio Giudici
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