Handel – Il trionfo del Tempo e del Disinganno

interpreti S. Devieilhe, F. Fagioli, S. Mingardo, M. Spyres
direttore  Emmanuelle Haim
orchestra Le Concert d’Astrée
regia Krzysztof Warlikowski
regia video Stéphane Metge
formato 16:9
sottotitoli It., Ing., Fr., Ted.
dvd Erato 0190295819361
prezzo 20,50

 

Un oratorio di chiaro intento moraleggiante (la Bellezza facile preda del Piacere, contro il quale argomentano il Tempo, che ogni bellezza corrompe, e il Disinganno che svela l’insidia d’ogni lusinga), privo di coro e con solo quattro voci a reggere oltre due ore. Come dire la morte annunciata del teatro, a favore d’una (eventuale) gloria autoreferenziale del canto. Ma è non tener conto di quanto sempre più succede in giorni come i nostri, che il teatro musicale hanno cambiato nel profondo: riuscendo, nei casi migliori come questo, a “raccontare” anche una sorta di disputatio in apparenza filosofica ma in realtà gesuiticamente castrante.
Per cominciare, la direzione è dinamicissima, ariosa, tenuta sempre in tensione senza scadere nell’isteria, equilibrando con sovrano magistero serietà drammatica e dolcezza struggente: scansando il doppio rischio dell’algida seriosità e del sentimentalismo. Direzione che aderisce come un guanto alla scena. Dove si comincia a raccontare una storia fin dalla sinfonia: mutata in colonna sonora d’un filmato, proiettato su uno schermo trasparente che cala al proscenio. Vediamo una ragazza in discoteca tra una folla di coetanei, impegnata a ballare con un adolescente cui s’unisce un tipo parecchio ambiguo che, tenendo in bocca una pastiglia, la passa a mezzo di un doppio bacio tanto a lei quanto a lui. Non bene: entrambi li vediamo su una lettiga in corsa nei corridoi d’un ospedale, dove lui muore. Sollevatosi lo schermo, il prosieguo trasforma una non-vicenda in serratissimo teatro da camera nel quale ciascuno dei quattro attori, grazie all’impianto scenico-registico, mantiene la propria natura di concetto astratto ma diventa lo stesso un personaggio. Perché ci viene raccontato d’una ragazza (Bellezza) che, irretita da Piacere (una specie di sinuoso dj techno, capelli lisci lunghi, barba incolta, occhiali neri, dalla sensualità di tanto più ambigua in quanto espressa dalla voce di controtenore), è indotta ad abbandonarsi a lui per spremere dalla vita tutto il godimento possibile: cosa cui cercano d’opporsi Tempo (nelle vesti d’un padre che è una sorta di postsessantottino in crisi di rimpianto), e Disinganno, incarnato in una madre borghesissima e religiosissima sempre pronta a ricordare le beatitudini della vita celeste, tanto superiori ai piaceri della carne che seducono nella vita terrena. L’opposizione sembrerebbe riuscire, perché alla fine Bellezza rinnega Piacere vestendo un abito bianco col dorato ricamo IHS a segnalarla sposa di Dio: ma finisce col tagliarsi le vene con una scheggia dello specchio in cui usava contemplarsi narcisisticamente.
Il palcoscenico è diviso in due da un alto cilindro di plexiglass. Ai due lati, sei ripide file di poltrone dove si siedono di volta in volta ragazzi, ragazze e un paio di donne mature; lo stretto corridoio tra prima fila e bordo di proscenio ospita a sinistra un tavolo anatomico dov’è disteso il cadavere del ragazzo, così che quanto si va discutendo diventa una sorta d’autopsia morale; a destra c’è invece un tavolo dove si riuniscono tutti e quattro i personaggi, in un serrato “dopo le esequie” che via via diventa straordinario esempio di teatro della crudeltà alla Artaud. Sul fondo, dietro alle file di poltrone, due grandi schermi offrono primi piani in itinere dei protagonisti della “vicenda”.
Così organizzata, è la scena stessa a suggerire la componente allegorico-speculativa: le file di poltrone possono essere quelle d’un cinema o d’un teatro, ma anche d’un anfiteatro anatomico-filosofico; il cinema è continuamente alluso dalle immagini sul fondo, e citato esplicitamente in un altro filmato posto a concludere la prima parte: un estratto da Ghost Dance di Ken McMullen, nel quale il filosofo Jacques Derrida espone la sua teoria sui fantasmi quali altrettante schegge di memoria del passato. Non è la prima volta, che il cinefilo Warlikowski mescola teatro e cinema (nel Parsifal ha impiegato, ciascuno per un  atto, il Kubrick di 2001, il Visconti della Caduta degli dei, il Rossellini di Germania anno zero; nella Frau ohne Schatten, il Resnais dell’Anno scorso a Marienbad): ma stavolta le immagini filmiche pervadono tutta la narrazione sposandosi idealmente alla scenografia, cosicché – tenuto anche conto che all’Archevêché di Aix la platea è digradante specularmente alle sei file in palcoscenico concluse dai due schermi – è sottilmente alluso anche il platoniano mito della caverna. Gestualità calibratissima, con immagini di rara potenza comunicativa: tutti e quattro attori da Oscar subito, e cantanti di bravura altrettanto portentosa.
Sabine Devieilhe fa tornare da noi l’indimenticabile Natalie Dessay: voce di cristallo, tecnica perfetta capace di plasmare legati d’incredibile tenuta e di sgranare agilità che sono altrettante cascate di perle, dizione d’altissima scuola, espressività vocale e scenica al calor bianco. Sara Mingardo è più che mai la meraviglia di sempre, di conserva a un Michail Spyres che domina senza il minimo affanno l’abnorme estensione di Tempo, saettando a re acuti facilissimi per poi piombare sotto il rigo mantenendo l’identica timbratura brunita. Franco Fagioli si conferma il massimo controtenore di oggi: agilità spericolate ma sempre liquide e musicalissime (fenomenale, la sua “Come nembo che fugge col vento”), legati magnifici (un “Lascia la spina” capace di guardare in faccia l’esempio di Cecilia Bartoli), un gioco d’accenti che esplora tutta la gamma dell’ambiguità.
Elvio Giudici

Su Classic Voice di carta o in digitale c’è molto di più. Scoprila tutti i mesi in edicola o su www.classicvoice.com/riviste.html

 


Prodotti consigliati
306 Novembre 2024
Classic Voice