L’arcitaliano Verdi italiano non lo sembrava affatto, almeno agli occhi di quegli stranieri che di noi hanno la solita immagine chiassosa e oleografica. Un ritratto di Jules Lecomte, pubblicato sull’“Indépendance belge” del 3 giugno 1855 (e riportato da Marcello Conati nel suo prezioso, indispensabile Verdi – Interviste e incontri, che ho ampiamente saccheggiato) dimostra lo stupore di questi forestieri alle prese con un italiano diversissimo da quelli cui erano abituati, serio, silenzioso, concentrato. Verdi, a Parigi per Les Vêpres siciliennes, è il contrario dei luoghi comuni. Macché cuore in mano, improvvisazione, faciloneria: “Frequenta poco il mondo, e vive nella società di qualcuno dei suoi compatrioti più placidi e più meditativi. È un uomo di un quarant’anni, dall’aspetto più germanico che italiano, e le cui maniere non hanno nulla dell’esuberanza e dell’ossequiosità dei suoi compatrioti. Al contrario, è assai selvaggio, molto silenzioso, riservato quanto mai, troppo diffidente. Il suo esteriore è austero, quasi sgarbato; ha i capelli castano chiari, la barba incolta, il volto pallido…, la profonda cavità dei suoi occhi, il suo naso la cui curva è pronunciata, le sue labbra sottili, tutto gli dà un aspetto misterioso, il tutto mitigato da una grande impassibilità di attitudine. Saluta appena, non visita alcuno, lascia intrigare per lui, non dice motto, e rumina. Uno strano Italiano!”.
In realtà, Verdi “strano” non lo era affatto, almeno per chi è cresciuto “in quella enorme zanzariera che è la valle del Po”, come dice Barilli impegnato a descrivere un uomo impregnato di campagna, autarchico e nazionalpopolare. A me, lo confesso, sembra quasi di averlo conosciuto, il Verdi. Apparteneva a una razza che oggi è estinta, ma che si è fatto in tempo a incrociare, almeno nei ricordi dei vecchi e nel lessico familiare. Aveva tutta l’asprezza e la generosità, la cocciutaggine e la pazienza, la tenacia e la diffidenza del contadino padano. Che avesse fatto fortuna e fosse diventato un grande proprietario, non cambia, anche perché, fossero padroni o mezzadri, agrari o braccianti, la mentalità di questa gente restava la stessa. Erano uomini “tutti d’un pezzo”, come si diceva appunto una volta. Verdi odiava avere debiti e che chi ne aveva con lui non li pagasse. I conti dovevano tornare fino all’ultimo centesimo, la parola data era sacra. Era severo con gli altri, ma anche con se stesso. Non si aspettava che il prossimo fosse generoso con lui, però quando pensava che fosse giusto, diventava generosissimo. La sua riservatezza non era modestia: da timido orgoglioso, conosceva il suo valore, ma non lo esibiva. Detestava gli invadenti, i faciloni e gli sciocchi. Non dimenticava mai i torti subiti, autentici o immaginari, e i suoi rancori erano tenaci, profondi e inestinguibili come i suoi affetti. Non sprecava né parole né soldi. Si assumeva le sue responsabilità e pretendeva che tutti facessero lo stesso. Il denaro gli piaceva. Sapeva che non cresce sugli alberi e non lo dilapidava, ma anche che non è tutto, quindi non si limitava ad accumularne e, al momento venuto, sapeva spenderlo. Credeva nel progresso, non sempre negli uomini. Rispettava le leggi ma criticava chi le faceva. La sua casa era bella, la sua tavola ottima, il servizio inappuntabile, ma senza ostentazioni, sprechi, cafonerie da nouveaux riches. Era un borghese orgoglioso di esserlo, il classico uomo che si è fatto da sé ma è capace di stare al mondo, coerente, concreto, laborioso, ordinato, austero, dignitoso ma non privo di ironia. Aveva capito tutto Giuseppe Giacosa, in visita a Sant’Agata nell’autunno 1884 insieme con Arrigo Boito: “Il Verdi è da molti riputato uomo ruvido e sdegnoso. Chi consideri la mole dell’opera sua, deve convenire come egli sia uno degli uomini che hanno meno perduto tempo”. Insomma, era fondamentalmente una persona seria.
Alberto Mattioli
L’anticipazione del libro di Alberto Mattioli “Meno grigi, più Verdi” (Garzanti) continua nel numero 225 di “Classic Voice”