interpreti M. Petersen, B. Skovhus, M. Klink, D. Sindram, P. Hunka, M. Winkler direttore Kirill Petrenko orchestra Bayerisches Staatsorchester regia Dmitri Tcherniakov regia video Andy Sommer sottotitoli Ing., Fr., Ted., Sp., Cor., Giap. 2 dvd BelAir BAC129 prezzo 30
Da diverso tempo, se Dio vuole, le messinscene più significative di Lulu (Willy Decker, Richard Jones, Christof Loy) hanno mostrato con quale profitto teatrale si possa – e quindi si debba – abbandonare sia il naturalismo piattamente spalmato sulle didascalie, sia quell’espressionismo vecchio stampo con le relative sue atmosfere lugubremente oniriche a mio avviso molto più prossime a Wedekind e al suo testo tanto ma proprio tanto datato, che non a Berg: la cui modernità rimane invece inalterata nel tempo e proprio regie come quelle dimostrano quanto sia semmai accresciuta. Dunque ambientazioni per lo più astratte, che magari strizzano l’occhio all’ipercolorata oggettistica hi-tech propria dei compositi moduli del videoclip, del fumetto impegnato, del musical, del cinema più sanguigno genere Tarantino o Almodóvar. Tendenza che, com’è ovvio, presuppone un forsennato lavoro sul singolo gesto, nessuno casuale e men che mai stereotipato, del genere melodramma d’antan: e se questo vale in generale, in modo particolarissimo interessa un’opera come Lulu. Che dopo aver felicemente consegnato al passato tutto l’armamentario espressionistico e di denuncia sociale che ha tenuto banco per molto tempo, ha cominciato a comporre quadri rappresentativi non più di una determinata società bigotta, ipocrita e insomma ingiusta, bensì dell’uomo per quello che è, non qui e ora ma sempre e ovunque: dei conflitti e delle prevaricazioni che da tale natura derivano, mostrati per così dire nudi e crudi.
Quadri, in ultima analisi, centrati sulla cinica, assoluta, tragica alienazione morale che un tale inestricabile groviglio ineluttabilmente comporta. Al principiare del secolo scorso, lo scottante problema del se e come riuscire a esplicitare le proprie pulsioni sociali entro il filisteismo borghese d’una società chiusa perché rigidamente stratificata, fu esplorato con risultati artisticamente alterni da Wedekind, da Schnitzler (pensiamo a Girotondo), da Brecht, dal cinema (L’angelo azzurro di Sternberg), dagli inglesi espatriati come lo Isherwood di Addio a Berlino (ovvero Cabaret): dall’intero fronte, insomma, della cultura impegnata a scrutare la società che l’esprimeva. Ma Lulu non appartiene esclusivamente a quel mondo. Lulu non muore mai: è nella testa di ciascun uomo, assume forme sempre nuove, e da lì ogni volta risorge.
Questa monacense di Tcherniakov ha diverse assonanze con la londinese di Loy. Scena non totalmente vuota però neutra: una ventina di cubi di plexiglass che formano una sorta di labirinto totoriflettente (la memoria non può fare a meno di riandare alla Signora di Shanghai di Welles; ma quelle gabbie trasparenti sono anche un po’ zoo, che racchiude una fauna borghese con la quale non si può mancare di avvertire un’inquietante affinità) entro cui s’aggirano altrettante coppie che replicano come in un balletto un po’ straniato la gestualità – violenta, ai confini della bestialità, incontri che sono sempre scontri sessuali, mai l’ombra d’una tenerezza – dei protagonisti posti invece sul davanti, che in tal modo sembrano moltiplicarsi inglobando anche la platea.
Al centro, Lulu non è mostro né vittima: è una donna dai tratti sorprendentemente “normali”, che distrugge e si distrugge ma senza progettare né l’una né l’altra cosa. Accade, semplicemente. Mostruosamente: proprio perché non c’è intenzione, non c’è spessore, e dunque gli errori che fa, non essendo pensati, si replicano. Esattamente come, riflettendosi le une nelle altre, si moltiplicano le immagini di questo claustrofobico labirinto dove alla fine tutti sono seminudi, tutti interscambiabili, tutti zombi privi d’identità riconoscibile, supposto poi che un’identità l’abbiano mai avuta.
Il celebre ritratto di Lulu, il Pittore comincia a disegnarlo scontornandone sulla plastica d’uno dei cubi il corpo, ma subito lei se ne va, e lui lo completa ma solo per quanto concerne il contorno: una linea continua ma priva di carne (si pensa alla celebre Linea di Osvaldo Cavandoli, che nella sua asetticità ha potuto servire identica per moltissime pubblicità), che resterà appiccicata alla parete e sulla quale periodicamente Lulu tornerà ad appoggiarsi, patetico tentativo di tornare indietro oppure di darle una reale consistenza corporea e quindi una fisionomia.
L’impianto scenico consente un moltiplicarsi di controscene con le quali vediamo agire anche chi non è al centro del singolo momento narrativo: che in tal modo acquisisce complessità ma anche una chiarezza sorprendente. E con soluzioni che quantunque divergenti dalle didascalie berghiane ne aderiscono assolutamente allo spirito. Il legame di Lulu con Schön, ad esempio. Che è l’unica cosa reale della sua vita: al punto che le morti dei due precedenti mariti vien fatto pensare siano state in qualche modo pianificate, e che tutto quanto avviene dopo la fatale revolverata con la quale lei uccide Schön, sia un’illusoria ricerca d’un surrogato, rappresentato dal suo soprabito nel quale periodicamente s’avvolge, facendolo indossare all’ultimo cliente. Che ha ben poco, anzi niente di Jack lo Squartatore. È un povero diavolo in felpa grigia con cappuccio, che capiamo benissimo essere stato scelto da Lulu perché assomiglia un po’ a Schön (nonostante abbia tanti capelli invece d’essere calvo). Allora lo fa sedere mettendogli addosso il vecchio soprabito e sedendoci in grembo: così facendo, nella tasca trova un coltello e con esso s’uccide vincendo il tentativo che il poveraccio fa per fermarla, prima di fuggire inghiottito dal labirinto buio mentre la Geschwitz s’appoggia ancora alla linea bianca del ritratto di Lulu.
Spettacolo magnifico, in simbiosi totale con una direzione che una volta di più conferma la statura gigantesca di Kirill Petrenko. Precisione e chiarezza assoluta, ovvio. Ma anche un sorprendente taglio cameristico nel quale la complessa architettura sonora pare sciogliersi in delicatezze e morbidezze iridescenti, quasi memori delle atmosfere disincarnate del Concerto per violino da Berg dedicato “alla memoria d’un angelo”. A fronte, specie negli intermezzi, una densità sinfonica e una ricchezza cromatica quasi straussiane, fatte di pulsione dinamica incessante, di roventi vampate liriche che si spengono in soffi d’una luminosità ghiacciata e scintillante: tutti gli innumerevoli contrasti, però, ricomposti in una tensione continua quantunque mai assillante, che consente di leggere ogni particolare di partitura tanto complessa, ma nello stesso tempo di schivare ogni compiacimento analitico.
Cast pienamente all’altezza – tanto nella recitazione quanto nel canto – di simile portentosa simbiosi tra buca e palcoscenico. Marlis Petersen, ex Susanna di notevole spessore, è un filo in affanno nell’estremo acuto, ma compone un personaggio impossibile da dimenticare. Bo Skovhus sprigiona tutto il carisma che abbisogna assolutamente a Schön, ma ne fa un carattere nervoso, inquieto, con tutta la violenza che può generare una sostanziale fragilità. Splendida la Geschwitz di Daniela Sindram, insolitamente giovanile e di gran linea vocale; Matthias Klink regge le impervie richieste della tessitura di Alwa, ed è attore superbo al pari del viscido Schigolch di Pavlo Hunka e del repellente Atleta di Martin Winkler; e tutte le parti di fianco, così come ciascun componente del magnifico coro, recitano e cantano benissimo.
Elvio Giudici
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