In anni recenti, un medico epidemiologo tedesco particolarmente esperto in questioni italiane, il professor Thilo Gottlieb von Schlendrian zu Wasswill-Dassagen, dell’Università di Nimmermehr (Lodomiria Westfalica), ha pubblicato sulla rivista specializzata «Nusquam» (nel numero del 29 febbraio 2009) uno studio pionieristico sul diffondersi di un’epidemia nel nostro Paese. Egli la chiama “Mehrzahlseuche”, con riferimento anche a un episodio del passato, una misteriosa morìa avvenuta tra il 6 e il 10 ottobre 1582 in un villaggio dei Pirenei, al confine tra la Samogizia e la Tingutania. Il termine clinico in lingua tedesca può essere tradotto più o meno con “Pluralpandemiopatìa”. In Italia, osserva Wasswill-Dassagen, gli effetti sono particolarmente terribili, e si configurano come mostruosa proliferazione desinenziale. Un assessorato alla Cultura diventa così un “assessorato alle Culture”, all’Università di Siena è spuntata una sorta di neoplasia, ossia il Dipartimento di Letterature Moderne e Scienze dei Linguaggi. Già si profilano avvisaglie preoccupanti: il Ministero della Pubblica Istruzione (ah, dimenticavo: “…dell’Istruzione” e basta, e infatti c’è stata la dolorosa amputazione operata dalla nota équipe medica formata dai professori von Schule, von Grossameisen, von Grossfreund…) sta per diventare il “Ministero delle Istruzioni”. Inevitabilmente, ne sarà coinvolta la sfera emotiva e persino (ahi, ahi!) quella religiosa. Un futuro capo dello Stato esorterà i giovani all’amor di “Patrie”, l’innamorato dirà all’amata “i miei amori sono eterni”, e, per logica conseguenza, un sacerdote nell’omelia inviterà i fedeli ad amare non Dio bensì “gli dèi”.
Jun132012
Amor di Patrie…
Se Beethoven non è più Beethoven
Il fenomeno non poteva non coinvolgere qualcosa che i lettori di «Classic Voice» considerano, credo (spero!…) fondamentale. Infatti, durante un recente convegno organizzato dal Dipartimento (per ora, regge al singolare!) di Filosofia (c.s.) dell’Università di Roma Tre al Ministero delle Istruzioni (ma sì, anticipiamo i tempi!) nei giorni 10-11 aprile 2012, una relatrice che si segnala fra i più colti, prestigiosi e agguerriti studiosi in ambito musicale e musicologico ha esordito (ne siamo certi, con le migliori intenzioni) avvertendo che è improprio dire “la musica”, poiché sarebbe assai più corrispondente alla realtà descrivere e analizzare “le musiche”. Avendo a mia volta qualcosa da ribattere, all’udire quelle parole sostenute ‒ lo riconosco ‒ da grande dottrina e ragionevolezza e da ineccepibili dimostrazioni defacto, ho concepito immediatamente l’intenzione di dedicare questo mio spazio a una consultazione con gli amici lettori, i cui stimoli mi sono sempre stati preziosi; e di farlo in due puntate successive, poiché lo spazio di una sola, di questa, per esempio, non sarebbe sufficiente.
Qui mi limito a un’osservazione, che però è fondamentale come significato axiologico, ossia in termini filosofici, come valutazione della qualità e del rilievo di ciò che l’illustre studiosa chiamava “le musiche”. Se noi ci allontaniamo dall’uso linguistico del singolare generalizzante, e “astrattivo” nel migliore significato della parola, ossia non riduttivo e anòdino bensì onnicomprensivo e polivalente (l’istruzione, la patria, l’amore, Dio), difficilmente lo riconquistiamo poi, qualora vogliamo farlo. Fatalmente, la pluralizzazione isola qualche frammento e dimentica per sempre gli altri, ed è appunto ciò che sta avvenendo da due o tre generazioni per la musica “forte”, considerata non come riferimento alto e vertice di pregio artistico, ma come una qualsiasi opzione, minoritaria e perciò (!) socialmente marginale.
Per ora mi fermo qui, poiché ora “viene il bello” e mi occorre uno spazio doppio. Per altro, questo mio intervento di oggi era una premessa indispensabile. Ma già sulla premessa, i lettori, se lo vogliono, sono abilitati a lanciarmi di tutto, dagli aeroplanini di carta ai torsoli di mela.