interpreti D. Dessì, F. Armiliato, D. Kovalenko, A. Antoniozzi direttore Valerio Galli regia Rosetta Cucchi orchestra e coro Teatro Carlo Felice di Genova dvd Dynamic 37772 prezzo 24,30
Arriva sul mercato dei dischi un’opera al momento alquanto trascurata quale la Fedora di Giordano che fu invece un tempo popolarissima e che patisce ormai da diversi anni l’indifferenza della produzione odierna verso quella stagione che si disse verista cui essa appartiene di diritto. Non si può che esserne lieti, e tenterò di dire il perché. Fedora non appartiene al rango dei capolavori indiscussi alla stregua di una Traviata o di un Don Giovanni e con ogni probabilità non è neppure il titolo maggiore del compositore foggiano al quale si deve almeno un’altra creatura di stoffa musicale più accertata, ovvero l’Andrea Chénier; ma il parziale oblio in cui adesso è caduta mi pare davvero un nonsenso con la sfilza di amene corbellerie cui talora i nostri cartelloni si dedicano nella inane speranza di resuscitare capolavori irredenti o comunque capaci di stimolare le folle (si fa per dire). Le ha offerto spazio nel marzo del 2015 un teatro importante, il genovese Carlo Felice, e possiamo renderci conto che non si tratta di impresa a perdere ascoltando, e vedendo, il dvd di cui si parla. Fedora, scritta nel 1898 e ambientata tra Pietroburgo, Parigi e uno chalet svizzero, è una specie di giallo musicale con tanto di cadavere, sospetti e retroscena politico la cui valenza viene garantita, ancor più che dalla materia compositiva, da un istinto drammaturgico di primissima mano, di quelli che statuiscono le fortune di un’opera musicale. L’intrigo che ne costituisce il plot ebbe a fattore il librettista Arturo Colautti il quale lo trasse da uno dei molteplici e per i tempi fortunatissimi prodotti teatrali di Victorien Sardou; un libretto di non trascendentale qualità verbale e tuttavia abilissimo nell’esporre i fatti con una stringatezza cronachistica degna di lode: la principessa russa Fedora Romazov, sconvolta dall’assassinio dell’amante Vladimiro, medita vendetta e, appreso che l’omicida è Loris Ipanov, un seguace dei nichilisti, lo denuncia alle autorità imperiali ma nel frattempo soggiace alla corte di costui e se ne innamora. Donde un comune esilio nell’Oberland bernese, ove Loris ammetterà il suo delitto e ne avrà in cambio la maledizione di Fedora cui non rimane che uccidersi ingerendo un veleno e lasciando l’amante disperato. Fedora vide la luce nel 1898 al Teatro Lirico di Milano con Caruso protagonista conseguendovi un grande successo e seguitò per buona parte della prima metà del Novecento a imporsi su tutte le scene internazionali fino a dover patire lo sbiadimento dei nostri giorni. Riprenderne oggi le fattezze teatrali è atto di buona politica infine, perché l’opera conserva i propri tratti di valenza a dispetto di una materia musicale forse non tutta di prima mano ma capace di intrigare per la stringatezza incisiva del recitativo e la fluenza con cui Giordano manovrò i pochi ma incisivi temi che ne costituiscono l’ossatura. Questa realizzazione genovese palesa alcuni punti di forza; Valerio Galli, direttore a me ignoto, conduce l’orchestra del Carlo Felice con mano sicura e senso appropriato del fraseggio senza farsi dominare dall’ormai datata eloquenza verista, anzi riportando l’opera ai suoi segnali puramente musicali. Un’appendice dolorosa ne ha condizionato il percorso: l’infausta sorte toccata alla sua protagonista en titre, Daniela Dessì, scomparsa all’ancor giovane età di cinquantanove anni a seguito di una fulminea e imprevedibile malattia. E deve ammettersi che la sua partecipazione a questa Fedora non ne fa in alcun modo presagire le tracce: vocalmente e scenicamente Daniela s’impone come veritiera e provvista delle carte opportune a farne un personaggio a tutto tondo. Ma tutto il team vocale è pari alla protagonista per doti di verosimiglianza scenica, a partire dal tenore Fabio Armiliato, compagno di vita del soprano in grado di dar la giusta credibilità a Loris, e a un gruppetto di figure comprimarie tra le quali è equo segnalare almeno il De Siriex di Alfonso Antoniozzi e la Olga di Daria Kovalenko. La regia di Rosetta Cucchi, suffragata da un impianto scenico minimale di Tiziano Santi con gli azzeccati costumi di Claudio Pernigotti, si muove con qualche ambizione, va detto, e forse talune idee hanno la loro presa emotiva come, ad esempio, il ritratto fotografico della famiglia zarista sul fondo scena. Uno spettacolo non sfarzoso ma pregnante il giusto.
Aldo Nicastro
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