MACERATA – Se un merito ce l’ha il Flauto magico che ha inaugurato la stagione dello Sferisterio è quello di restituire a questo Mozart la sua originaria dimensione popolare. Teatro fatto dal popolo e per il popolo. Mozart conosceva e giocava coi generi, e questo lo aveva tradotto in scene e note da par suo. Prima della tv il popolare non è l’intrattenimento puro, disimpegnato, volgare e abbondantemente scosciato. Ma un sentimento politico collettivo. L’ha ampiamente dimostrato questa produzione scanzonata ma pensante, comica eppure serissima. Nell’agorà di Vick ci si emoziona, si ride per le buffonerie, si discute, si irridono e demoliscono i poteri, con la più schietta voglia di contestarne gli abusi. A darle il tono la traduzione in italiano del libretto (di Fedele d’Amico, che riprende una versione settecentesca: peccato non aver potuto lavorare a una nuova meno retrò). E la presenza di un centinaio di cittadini, maceratesi, marchigiani, immigrati. Nei parlati nuovi che gli sono affidati (originali, di Vick, ma non forzatamente attuali) spiccano come in un coro da tragedia greca le voci di strada, gli accenti spuri, perfino – proprio a Macerata! – le inflessioni africane. Vecchi e nuovi italiani. Mozart parla anche a loro.
Oltre al tono Vick centra pure la rappresentazione chiara, netta, delle forze in campo. Al di qua della transenna, verso l’orchestra e il pubblico, il mondo di Tamino e Papageno, la gente comune, i cittadini; ma anche gli immigrati accampati ai confini o nelle periferie delle grandi città. Un’umanità multiforme, spaesata e inquieta. Al di là, verso l’enorme muro, sono arroccati gli iniziati di ieri (Sarastro e i sacerdoti), ovvero i poteri forti di oggi. Barricati in tre santuari – che sono poi le tre porte di accesso alla conoscenza – assolutamente impenetrabili. E di nuovo torna quel modo spiccio, senza giri di parole, sommario, di identificarli nella Bce, nei media center della Apple, in San Pietro, tra banchieri, creativi della moda, tecnocrati alla Zuckerberg, porporati e donne in carriera. Ne è garante il caro Leader che si fa vedere per la comparsata di rito tra la gente che sbarca e soffre, dispensando i suoi sermoni da basso profondo con tanto di giubbotto della protezione civile. La disposizione iniziale funziona nella sua disarmante efficacia rappresentativa. E tocca vertici inventivi e poetici nel mostro-ruspa che minaccia Tamino, così come nell’abbraccio tra polizia in assetto antisommossa e manifestanti: utopia di cui il sublime duetto Papageno-Pamina è davvero la controparte sonora. Lo spettacolo fa poi un po’ fatica a trovare il modo, necessario, per svoltare. Non è sempre lucido nell’individuare la via di uscita, che poi puntualmente arriva. E coincide – com’è imprescindibile nel Flauto – con la “crescita” dei due protagonisti: i nuovi cittadini nel finale abbattono i tre santuari che crollano come carri allegorici in un carnevale di strada, redimono Sarastro e le sue “caste” e si concedono un superfluo cake-walk ribadito da un ancora più ridondante lancio di fuochi d’artificio. Un sogno, un’utopia, una visione semplicemente mozartiana.
Uno spettacolo siffatto, ardito ma leggibile, talvolta macchinoso e sopra le righe ma mai gratuito, non può prescindere dalla uniforme qualità e valore di chi lo porta in scena. Non ci sono star, ma una squadra, un team vocale che ha lavorato a lungo e benissimo: a partire da Valentina Mastrangelo, Pamina di eccellente pasta sonora e non comune personalità (sorprendente l’aria tragica risolta come scena seduttiva), e dal Papageno rider di una ditta di polli arrosto a domicilio davvero padrone della scena di Guido Loconsolo: spassosissimi i suoi refrain rallentati dall’effetto di qualche eccedente tiro di canna. Un gradino sotto il Tamino non troppo emozionato di Giovanni Sala. La regina Astrifiammante di Tetiana Zhuravel sfodera e tiene i sovracuti ma prende qualche papera nei dialoghi (è l’unica straniera del cast), così come il persuasivo Sarastro di Antonio Di Matteo. Deliziose le tre dame, intriganti e camaleontiche per cambi d’abito e accenti vocali (Lucrezia Dei, Eleonora Cilli, Adriana Di Paola). Stonati i genietti in vespa: più che da voce bianca hanno ormai l’età da patentino.
Ma il vero problema sta in buca. Daniel Cohen, è vero, non è aiutato dai parlati troppo lunghi, nel secondo atto interpolati da una sorta di multiforme vox populi che contrappunta la coscienza dei personaggi principali sanzionando le loro paralizzanti indecisioni formative (è giusto stare con Sarastro o con la Regina della Notte?). Qualche sforbiciata avrebbe giovato al ritmo teatral musicale. Però Cohen non fa nulla per serrarlo. Sa far suonare bene l’orchestra e il coro marchigiani, e non è poca cosa. Ma poi si perde in dettagli di calligrafia che il contesto logistico e rappresentativo non richiede. La situazione ha bisogno d’altro: e un direttore di talento come lui imparerà presto a capirlo.
Andrea Estero
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