interpreti S. Yoncheva, C. Castronovo, I. Paterson, E. Dreisig, M. Prudenskaya direttore Victorien Vanoosten regia Andrea Breth teatro Staatsoper unter den Linden
BERLINO – Andare a Berlino per sentire la Médée diretta da Barenboim e ritrovarsi sul podio l’ignoto Victorien Vanoosten. Quello di cedere la bacchetta per l’ultima recita è un bel gesto che fa felici gli assistenti dei grandi direttori, ma lascia interdetti spettatori e pellegrini d’opera. Abbado rinunciò a dirigere il Don Giovanni per lasciare la ribalta al suo pupillo, con grande disappunto di avventori locali del Festival di Aix-en-Provence e abbadiani itineranti. Che s’infuriarono. Salvo poi rendersi conto di aver assistito al debutto di un talento del podio come Daniel Harding. È difficile dire se per Vanoosten da oggi si apriranno tutte le porte, come per il ventenne britannico. Ma certo è che il designato oltre ad avere fisico e carisma da star system ha pure gesto elegante e sicuro appeal direttoriale. Perfettamente a fuoco, peraltro, è la sua Medea. Qualcuno, nei grandi giornali tedeschi, recensendo la “prima”, ha deplorato il “beethovenismo” dell’orchestra di Barenboim. Quello che si è sentito all’ultima recita era invece l’opposto. Vanoosten è stato in grado di rovesciare l’assunto del maestro o semplicemente i pregiudizi critici hanno impedito di riconoscerlo: ad aprire le orecchie, il modello era Gluck, con la sua essenziale, stoica, vibrante pronuncia orchestrale posta al servizio di una declamazione altisonante ma modulatissima.
Non per nulla si eseguiva la versione originale dell’opera: in francese, con i dialoghi parlati al posto dei recitativi posticci, a restituire l’anfibia connotazione tra tragédie lyrique e opéra-comique, proiettata sull’accesa temperie del classicismo rivoluzionario. Versione in Italia ignorata, anche dai depositari dell’arte cherubiniana. Dunque un suono asciutto, tagliente e nello stesso tempo trasparente, arioso, che nella Sinfonia e nelle successive introduzioni orchestrali diveniva a tratti incandescente: come nella “tempesta” che apre il terzo atto, che nelle incalzanti accensioni descriveva il passaggio da temporale vivaldiano a orage cataclismatico. Centrato lo stile, le proiezioni in avanti sono benvenute. Per la verità in quest’orchestra, perfino troppo stilisticamente educata, le fughe in avanti non c’erano sempre, soprattutto negli accompagnamenti vocali, a volte ridotti a subordinata punteggiatura. Peccato, perché la qualità e il peso vocale della protagonista avrebbero potuto sostenerli: Sonya Yoncheva ha vinto la sfida di riproporre questa parte “monstre” con una linea di caratura ed espressività infiammate, forse più cantata che scolpita rispetto agli arcinoti modelli del passato. Anche il Jason di Charles Castronovo era perfetto nella restituzione di una vocalità tenorile sferica, divisa come vuole Cherubini tra liriche ingenuità e malevoli accenti eroici.
Merito anche di uno spettacolo motivante, intelligente e profondo. Andrea Breth ne fa una questione di potere, più che di corna: il toison d’or diventa merce di scambio tra Jason e Créon. I due maschi si alleano a discapito delle donne: Jason sposerà Dircé – contro la sua volontà – perché quel tesoro possa dare i suoi frutti grazie al sostegno del potente futuro suocero. Tra l’altro Medea e Giasone, a differenza degli altri, sono vistosamente mediorientali nei costumi di Carla Teti e nel trucco: il matrimonio conviene all’immigrato opportunista, e brucia ancora di più per Medea. Così il suo gesto inconcepibile, che già Cherubini esalta eroicamente e chiaroscura con accenti umanissimi, ambisce alla rivolta morale.
E dunque se le nozze con Giasone vedono Dircé come immobile idolo sacrificale ricoperta d’oro e pegni a mo’ di ex voto con i quali i ricchi invitati investono nell’affare nuziale, le casse che contengono il tesoro assicurato al fedifrago grazie ai poteri di Medea troneggiano in scena nello squallido garage disegnato da Martin Zehetgruber, e saranno le prime a bruciare sotto i sortilegi della maga. In questo quadro, il Creonte di Iain Paterson è troppo leggero per sostenere la parte di vero antagonista disegnato dalla regia, peraltro in simbiosi con lo spartito; e la Dircé di Elsa Dreisig che all’inizio viene costretta con violenza dalle altre donne a vestirsi da sposa, non ha la disinvolta e svettante agilità che la sua scrittura – ancora “italiana” – richiede, e che la Breth traduce in incipiente isteria speculare alla lucida razionalità di Medea. Più applausi strappa – e a ragione – la Néris di Marina Prudenskaya, come ovvio che con quell’unica, sublime, aria col fagotto obbligato dove la voce rifiuta di ripetere la “cantilena” offerta sul piatto d’argento dallo strumento per sfrangiarsi nella declamazione, in purissimo stile cherubiniano.
Andrea Estero
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