MILANO – Finale di partita di Beckett parla dell’incapacità di raccontare; Fin de partie di Kurtág si misura con l’impossibilità di mettere in musica quel paradosso. Se non si parte da questo doppio limite, non si capisce il valore di una creazione geniale e sofisticatissima, che la Scala di Pereira ha avuto il merito di perseguire e servire nel modo migliore possibile. La retorica dell’opera del millennio, o della più attesa del nuovo secolo – al Piermarini c’erano davvero tutta l’organizzazione operistica mondiale, la stampa che conta e un attentissimo pubblico che quasi riempiva la sala – rischia di essere fuorviante per le aspettative che genera. Kurtág, invece, è stato chiaro, fin dal titolo: Samuel Beckett: Fin de partie, scènes et monologues. Opéra en un acte. La devozione nei confronti dell’autore-letterato – e pure la sua centralità – non deve sfuggire. La presenza di un Prologo sul testo di “Roundelay” e le numerose inserzioni al libretto non devono ingannare: sono chiose, precisazioni, non revisioni. Più che voler scrivere la sua prima “Opera” che tutto il mondo attende dalla sua penna, il compositore ultra novantenne rende omaggio al drammaturgo e poeta amatissimo. Alla sua creazione, di cui riproduce soltanto scene e monologhi, come in un defatigante tentativo, un approssimarsi a un limite destinato a rimanere incompiuto. E alla sua verità, consacrata nella parola.
Una parola che ha interrotto i legami coi significati univoci, coi sentimenti, e dunque anche con le sue grandi traduzioni in musica: chi si aspetta grandi narrazioni sostenute sul potere demiurgico dei suoni rimane deluso. Qui la musica non può far altro che servirla quella parola. Analizzarla e disezionarla, tenendosi a distanza.
Così Kurtág, novello Monteverdi, si districa in una sfida intellettuale insieme rinunciataria e ambiziosissima. E affida il testo a una vocalità miracolosa, varia, libera di muoversi tra canto parlato e declamato, comunque “schiava” dell’orazione. Non solo: costruisce in una orchestra potenzialmente enorme ma sfruttata al minimo una trama esile e sensibilissima di laconiche ombre sonore o di sfingei impulsi timbrici pronti a colorarla di poetici rimandi e allusioni. Strazi baluginanti nel territorio del non-detto. Ci sono dunque i valzer, le marce, i giri di tango, i lievi abbrivi melodici affidati al cymbalom o al malinconico bajany (una fisarmonica russa) , ma sono frammenti, lacerti volti a illuminare e chiaroscurare il testo. Ci sono le risentite invenzioni timbriche che increspano il tessuto quando Beckett è ironico, sarcastico o in-sensato (“Leccatevi gli uni con gli altri”), senza parodiarlo o deformarlo. Ci sono gli scoppi e le esplosioni sinistre che durano un attimo o le interpunzioni distillate, quasi a dare corpo al silenzio senza ricoprirlo di musica. Non c’è la tensione, la densità, espressiva di chi vuole dire la sua. Ciò che il compositore ha concentrato nelle sue miniature liederistiche e orchestrali, qui ritorna con la stessa logica additiva ma su scene molto più ampie, in diluizione. Come spersonalizzato.
Ricoprire di senso ciò che quel senso rifiuta. La sfida impossibile di Kurtág supera il limite che si è imposto solo nel finale. Hamm e Clov, il padrone e il suo servo, si separano. “E’ finita Clov, abbiamo finito”, dice Hamm ribadendo le parole d’esordio dell’altro (“Finita, è finita, sta per finire”). E qui, in tutto il monologo conclusivo, la traccia musicale inizia a emanciparsi da quelle parole ormai scarnificate e prive di senso con più lunghe sequenze strumentali, dove l’erede di Schubert e dei Viennesi ritorna nel lirico e divagante sfibrarsi del tessuto, in un filo di dolcezza siderale che si apre in un Epilogo orchestrale elegiaco. L’unico tradimento nei confronti di Beckett è nel segno, se non della speranza, della commiserazione.
Kurtág rende omaggio a Beckett, traslandolo in una dimensione e su un palcoscenico operistico. Anche la regia di Pierre Audi ne prende atto: quello che vediamo è la più fedele traduzione scenica delle simboliche costrizioni – sulla sedia a rotelle del protagonista, dentro i bidoni dei suoi genitori-relitti, perennemente in piedi di Clov – volute dall’autore. Si lavora oltre che sulla voce, sugli sguardi, sulle espressioni, sui gesti minimali di mani e braccia, con tutti i limiti che derivano dall’ampiezza della sala scaligera. Eppure ci sono due invenzioni notevoli: la scenografia di Christof Hetzer che mostra una casetta dal di fuori, ma contenuta in oscuri gusci più grandi, così che non si capisce se i personaggi siano all’interno o in un esterno comunque buissimo, in una sospensione spaziale metafisica e paradossale. E il superbo lavoro di luci di Urs Schoenebaum che proietta i personaggi sulle pareti della casa riducendoli a ombre, in simbiosi con le sfuggenti trame sonore. La scenografia ruota su se stessa a ogni cambio scenico, disarticolando il rapporto tra casa e gusci, e offrendo punti di vista sempre diversi: bellissimo, quando alla fine l’edificio mostra frontalmente lo spigolo, l’avvicinarsi e quasi toccarsi delle ombre di Hamm e Clov, mentre di fatto, sull’elegia sonora, si separano. Intenzioni musicali e sceniche si compenetrano.
La Scala ha onorato questo compito storico al meglio, a partire dall’orchestra diretta da Markus Stenz: peccato che in questa circostanza così importante ed esposta non sia sceso in campo il suo direttore musicale. Il cast, a lungo preparato dallo stesso Kurtág in un lavoro di concertazione millimetrico e sensibilissimo, vedeva le voci di Leonardo Cortellazzi (Nagg) e Hilary Summers (Nell), capaci di sapide interlocuzioni e di filati estremi quasi smaterializzati, e il talento dicitore del Clov di Leigh Melrose. L’Hamm di Frode Olsen – un basso/baritono cui mancava il pieno smalto di qualche suono grave – ha creato con le inflessioni della voce cantata il personaggio originale, da vero attore-cantante. E il suo progressivo trasformarsi – cieco e con il rampino tenuto come una lancia – in una sorta di Wotan beckettiano raccontava meglio di ogni altra immagine la problematica attrazione di opera e prosa, di suono e parola, quando sono sulla carta inconciliabili.
Andrea Estero
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