[interpreti] A. Netrebko, E. Cutler, F. Vassallo, J. Relyea
[direttore] Patrick Summers
[regia] Sandro Sequi
[orchestra]del Metropolitan
[2 dvd] Dg 073 4421
I Puritani, melodramma serio al quale Bellini affida l’ultimo messaggio della sua poetica, prima della prematura scomparsa, sono l’immagine dell’opera romantica italiana per eccellenza, araldica e cavalleresca, incentrata prima di tutto su una nuova figura di tenore, caratterizzata da acuti (e sovracuti) svettanti ad altezze siderali, declamato appassionato, fraseggio dolce e malinconico: invenzione belliniana che sconvolse i contemporanei e affascinò altri compositori coevi (come Donizetti). È poi l’opera dell’eroina romantica per eccellenza che, privata dell’amore o dell’innocenza, perde la ragione, entrando in una dimensione sovrumana e ultraterrena, sublimata nella scena della pazzia. Ricreare in epoca moderna l’atmosfera originaria dei Puritani è sempre stato difficile, trattandosi di un’opera scritta appositamente per quattro cantanti (non scordiamo, oltre alla coppia protagonista, le parti di Riccardo e Giorgio) dalle doti vocali strabilianti. Non mancano, tuttavia, nella discografia, sicuri punti di riferimento. La Callas, innanzitutto, la cui interpretazione, racchiusa in un disco che rappresenta anche la prima registrazione ufficiale completa dell’opera in studio (Emi 1953), è tuttora indispensabile conoscere per capire che cosa significhi realmente il belcanto. Si sa, del resto, che proprio Bellini costituì il punto di partenza (non dimentichiamo il debutto a sorpresa della Callas nel 1949 in questo ruolo, di solito affidato a soprani leggeri) e l’epicentro della rivoluzione da lei apportata nel teatro d’opera, con la riscoperta di un linguaggio e di uno stile interpretativo che sembravano perduti per sempre. E infatti, anche in questa edizione, tra la Callas e gli altri corre un vero e proprio abisso. Uno stile che toccò poi a Joan Sutherland di perfezionare, facendo vibrare altre corde: se la Callas è inarrivabile sul piano tragico, la cantante australiana è non meno prodigiosa nel canto fiorito e nell’abbandono elegiaco, grazie ad una voce di grande volume, dotata di un’ottava alta splendida e lucente, un’arte della coloratura sorprendente, un’adesione filologicamente ancor più corretta alla prassi esecutiva antica: è notorio che il remake inciso nel 1973, con Pavarotti (Decca), rappresenta tuttora l’apice della discografia: in altre parole, il disco che non si può non possedere. Coeva a questa edizione è quella con Beverly Sills e Nicolai Gedda, da annoverare tra le più interessanti, quanto meno per i due menzionati protagonisti (Westminster). Ci sono poi i Puritani diretti da Riccardo Muti, affrontati a Roma nel 1969 con un cast stellare composto da Mirella Freni, Luciano Pavarotti, Sesto Bruscantini (Nuova Era) e nel 1979 a Londra per la Emi (con Alfredo Kraus e Montserrat Caballé). Muti è stato uno dei pochissimi direttori che si è curato di valorizzare, nei Puritani, anche la scrittura orchestrale: da qui il sapore sostanzialmente inedito di moltissime pagine (nonostante alcune rigidità nell’accompagnamento). Le due compagnie di canto non sono paragonabili: nel concerto romano prevale l’Elvira lirica della Freni, mentre Pavarotti è meglio nei live del 1972 con Beverly Sills (Legato Classics), nel disco citato con la Sutherland o nel live dal Met del 1976; nell’incisione è di gran lunga superiore l’Arturo di Alfredo Kraus (anch’egli in forma più smagliante in alcuni live precedenti), che per eleganza, nobiltà e distacco aristocratico non ha eguali. I grandi momenti fissati in disco si fermano qui, con vistose lacune per quanto concerne alcune interpretazioni più recenti, che avrebbero sicuramente meritato di essere documentate in modo più appagante: il discorso (volendo ridursi all’essenziale) concerne soprattutto Mariella Devia, che si è appropriata in modo magistrale del ruolo di Elvira battendo sentieri originali, e Gregory Kunde. Il mercato del dvd sembra essersi stranamente dimenticato dei Puritani e si è ridestato solo negli ultimi anni, con inevitabili scompensi. La ripresa della produzione di Serban al Liceu di Barcellona (Tdk), infatti, si risolve per lo più in un omaggio all’arte somma di Edita Gruberova, Elvira grandissima, nella sua personale versione di un trasognato ed estenuato lirismo, che però ha brillato certamente di più in precedenti occasioni. Lo spettacolo ripreso in alta definizione al Met nel gennaio 2007 e appena pubblicato dalla Dg punta a sua volta sulla grazia e sul fascino della Netrebko, e non certo sulla polverosa e statica messinscena di Sandro Sequi (la stessa che, nel 1976, aveva accolto il trionfo della Sutherland e di Pavarotti), la quale mostra tutti i suoi anni. La Netrebko dà il suo meglio nei momenti patetici, resi con intensità e toccante tenerezza, e ha una sua spontanea freschezza: manca però di virtuosismo, spavalderia e varietà di fraseggio, ingredienti assolutamente indispensabili per essere una fuoriclasse in questo repertorio. In un contesto di pura routine, gli altri sono di rango inferiore, per non dire dimessi: Vassallo è efficace, ma avaro di sfumature, mentre Eric Cutler è solo una pallida controfigura di Arturo.
Giovanni Chiodi