Muti: torno alla Scala nel 2020, ma senza opera

"I sauditi? Pereira non doveva invitarli nel consiglio di amministrazione"

RAVENNA – C’è stato un momento in cui il ritorno di Riccardo Muti alla Scala sembrava molto vicino. Qualcuno si spinse a dire che la permanenza del sovrintendente Alexander Pereira alla Scala dipendesse dalla sua capacità di riportarlo a dirigere un’opera al Piermarini. Niente di tutto questo, a guardare i prossimi calendari. La marcia di avvicinamento a Milano si ferma a Pavia, il 25 e 26 maggio, al Festival di musica sacra ideato dallo stesso Pereira. “Dirigerò la Missa Defunctorum di Paisiello, un capolavoro assoluto già presentato a Salisburgo, al Festival di Pentecoste. A Pavia sarò con l’orchestra Cherubini e il mio coro preferito, della Radio bavarese, uno dei più straordinari al mondo”, anticipa. “Poi nel 2020 tornerò alla Scala di nuovo con la Chicago Symphony Orchestra”, dunque sempre e soltanto sul podio sinfonico. In questo periodo Muti ha altre priorità.
“Giorni fa”, il direttore entra subito in argomento, “ho visto una Traviata che letteralmente insultava l’italianità. Proponeva in scena tutti i luoghi comuni, gli stereotipi più beceri, sugli italiani. Non avendo più il direttore d’orchestra l’autorevolezza per imporsi, oggi le redini vengono lasciate a dei registi che non sanno bene chi siamo noi. È la ragione per cui mi sto dedicando da molti anni all’Accademia sull’opera italiana”

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Cosa ci deve essere nel bagaglio di un aspirante direttore?
“Prima di tutto sapere suonare uno strumento a corde; poi conoscere bene la tecnica degli strumenti a fiato. Ovviamente suonare bene il pianoforte. E soprattutto avere in tasca il diploma in composizione, quello che in Italia prevede i famosi dieci anni: lo studio della musica più completo e più complesso che esiste al mondo. Io sono fiero di averlo fatto. Armonia, contrappunto, strumentazione: conservo ancora le prove d’esame”.
Lei però ha studiato pure direzione con Antonino Votto.
“Ero il suo allievo preferito. Lui era burbero, severo, dal cuore d’oro, dal carattere un po’ toscaniniano, come tutti gli assistenti di Toscanini. La prima lezione la ricordo benissimo…

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Cosa significa imparare a dirigere l’orchestra?
“Toscanini diceva che le braccia sono l’estensione della mente. Kleiber (con cui ho avuto un’amicizia strepitosa, conservo ancora tantissime sue lettere) diceva che l’ideale sarebbe dirigere un’orchestra senza dirigere. Un paradosso. Ma oggi siamo arrivati al contrario. Vivendo in una civiltà dell’immagine, anche la direzione d’orchestra sta diventando dimostrativa: si vedono direttori che saltano, che si sbracciano, con una gestualità inutile. Non so quanto i membri di un’orchestra, che sono veri musicisti, sopportino la presenza di qualcuno davanti a loro che spalanca la bocca come un pescecane, o fai i salti, cose intollerabili per la grande tradizione direttoriale dei Karajan o dei Reiner”.
Come si impara a concertare?

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Ci faccia un esempio concreto di una cosa che ha insegnato.
“Pensiamo a quando Rigoletto dice ‘Tal pensier perché conturba ognor la mente mia, mi coglierà sventura, ah no è follia’. Poi, soltanto dopo, esplode il Do maggiore e il forte orchestrale, come un colpo di teatro. Invece i baritoni stravolgono tutto e cantano forte già ‘follia’. È un errore: quella frase è tutta in pianissimo, perché descrive un pensiero. E un pensiero non può essere gridato”.

Nell’immaginario comune Rigoletto è gobbo e canta in maniera veemente…
“Invece Verdi ha scritto una partitura quasi settecentesca. Si pensi al clima della musica dopo il preludio. Come fai a metterci dentro, che so, la mafia? Attenzione, non voglio una regia elementare, entra di qua ed esci di là. La regia deve mettere la musica in condizione di vivificare ciò che sta sulla scena”.
Arriviamo a un argomento che le sta molto a cuore.
“Tutti i grandi registi oggi su Verdi cadono. C’è una verità umana che non può essere artefatta, violentata, disturbata”.
Lei come reagisce?

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Ma ci sarà una grande regista in grado di capire Verdi.
“Può darsi. Vediamo, Carsen fece con me dei Dialoghi delle Carmelitane bellissimi, ma quando tocca Verdi cade. Verdi non sopporta l’intellettualismo. Certamente il palcoscenico non dov’essere sovraccaricato di cose in contrasto con la musica. Zeffirelli lo sovraccaricava molto – soprattutto negli ultimi tempi – ma il Don Carlo era il trionfo di un fare artistico e artigianale che sta sparendo”.
Altri?
“Pierre Audi che aveva fatto un discreto Flauto magico a Salisburgo dopo la catastrofe di Vick…”.
Una catastrofe?
“Era un insulto all’opera. Lo avevo chiamato perché aveva fatto un bel Macbeth alla Scala. Alla fine il pubblico insorse e il Festival, senza dirmi niente, distrusse quello spettacolo”.
Perché?
“Ero tutto uno sfottò, lui forse voleva rovinare la favola ai bambini austriaci. Nel finale, un momento luminoso, i coristi erano tutti vecchi che camminavano trascinandosi per il palcoscenico una flebo. Eppure si cantano parole di giubilo, mentre io vedevo solo morti viventi”.
Diceva di altri registi…

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Fare il direttore significa anche intervenire nella gestione teatrale. Questo, forse, non si insegna. Cosa pensa del tentativo dei sauditi di entrare nel Consiglio  della Scala?
“Non so se Pereira avesse informato tutti i suoi interlocutori. Da una parte penso che i teatri abbiano bisogno di sponsorizzazioni, dall’altra che il consiglio di amministrazione della Scala dovrebbe essere composto solo da italiani, o al limite da europei. Personalità non così distanti dalla nostra cultura e dalla nostra storia, che conoscono esattamente quali sono i problemi del teatro, del pubblico. Se uno vuole dare dei soldi, perché ama il teatro, la sua storia, ben venga: oggi le risorse servono sempre più. Ma non può pretendere di gestire l’istituzione. Tra l’altro ci sono dei testi nel nostro repertorio lirico che cozzano con religioni e ideologie. Come potrebbe un amministratore islamico accettare che nell’Otello si dica che l’orgoglio musulmano è sepolto in mare?”.
Dunque, Pereira ha fatto male?
“Faccio mio il motto dei templari. Porta patet, cor magis: la porta è aperta, il cuore ancora di più. Un signore a San Diego ha donato all’orchestra sinfonica 120 milioni di dollari, senza pretendere nulla in cambio. Ben altra cosa che 15 milioni per 5 anni, con la pretesa di far parte del consiglio. Se il principe saudita vuole donarli lo faccia, ma senza do ut des”.
La rivedremo dirigere un’opera alla Scala?

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Andrea Estero

 

Estratti dall’intervista a Riccardo Muti pubblicata in versione integrale sul numero di maggio di “Classic Voice”. L’informazione professionale ha un costo che vi chiediamo di sostenere acquistando la rivista in edicola o su www.classicvoice.com (qui anche in versione digitale).

 


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