La maschera di Rossini editore La nave di Teseo pagine 342 prezzo 20
“Questo non è tanto un libro su Rossini – avverte Nicolao – quanto piuttosto un libro alla Rossini”. E com’è un libro “alla Rossini”? Risposta pronta: un libro in cui “ci mettiamo sulla traccia di quella grazia, di quella leggerezza, di quell’ironia beffarda e soave che contraddistingueva non solo l’opera ma anche la vita del grande italiano”.
La maschera di Rossini mantiene quel che promette. Non è il libro che, letto a fatica o per dovere, ti consoli a tener pronto per carpire date, titoli, notizie, riassunti, analisi. È un libro che leggi comodo e disteso, leggero di maestosa sapienza, ma che sa il fatto suo nell’inseguire i molti profili di un musicista che smise (apparentemente) di scrivere al culmine del successo, di un uomo baciato (apparentemente) da ogni fortuna della vita – eleganza, amore(i), intelligenza, successo, denaro -, quanto afflitto da ogni malanno del corpo e della psiche, attanagliato da cento paure – del treno, delle barricate, delle rivoluzioni, del talento altrui – ma anche prodigiosamente non scalfito dalla fila pur lunga di insuccessi che in carriera gli si alternarono ai trionfi a ritmo quasi esattamente alternato.
Maschera, sì, ma non una, molte. Chi era Rossini? Il viveur attratto già adolescente dalle donne e che attraeva le donne, irresistibilmente nella sua giovinezza, molto anche nella sua pingue vecchiaia, ornata da una sobria parrucca per occultare la calvizie? Era quello ma anche altro. L’uomo di gusti raffinati in sartoria come in tavola? Il dandy che parla con ricchi e potenti “alla pari”, pur afflitto da ondate depressive devastanti? Che rispetta e disprezza con lo stesso distacco? Dietro ogni maschera ne scopri un’altra.
E come musicista? Quanti Rossini ci sono? Questo è il nodo che più interessa e affascina. Ce ne sono almeno due. Quello che scrisse per il teatro e si fermò, a 37 anni, con Guillaume Tell (1829), e quello disincantato, ironico, aristocratico, segreto degli anni di Parigi (1855-68); l’ultrasessantenne che vive di rendita come uomo e come musicista, facendosi amministrare dai Rothschild e scrivendo pezzi in apparenza piccoli per sé e i suoi amici. Li divide l’interregno doloroso delle malattie, la parentesi di Bologna peraltro coronata dalla prima italiana dello Stabat Mater diretto da Donizetti, che Giaochino abbraccia con le lacrime agli occhi pregandolo “non abbandonarmi o caro amico”. (Il Donizetti che sarebbe morto folle, lui sì, solo sei anni dopo. Mentre Bellini, l’altro post-rossiniano che doveva riempire il grande vuoto, se n’era già andato nel ’35).
Rossini tacque per dieci anni, dal 1844, ma alla fine non rimase zitto. Nel ’55 iniziò a Parigi la sua seconda, segreta carriera, in una dimensione europea sorprendente dalla quale non i Donizetti, i Bellini, i Verdi sarebbero usciti (o semplicemente seguiti), ma strana gente come “Monsieur Sadi”, musicista anodino (come la musica che Gioachino scrisse per Olympia), autore di pezzi “in forma di pera”, del quale perfino John Cage disse di essere pronipote.
Al libro scritto molti anni fa, oggi fermamente voluto da La nave di Teseo, Nicolao aggiunge un capitolo nell’indagine sul mistero dell’apparente silenzio: una lettura in codice del celebre “Mi lagnerò tacendo”, in cui Rossini ripassò sei volte in forma differente i versi dal Siroe di Metastasio facendone metafora di se stesso.
Alla fine, chiudendo l’ultima di copertina, che cosa ci rimane? Non nozioni ma idee; strumenti che ci si porta sempre con sé. E con quelle, un “pin” per aprire le maschere di Gioachino Rossini senza lasciarsi troppo ingannare.
Carlo Maria Cella
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