Venerdì il cda della Scala dovrebbe annunciare la nomina di Dominique Meyer a nuovo sovrintendente del teatro. Francese, 64 anni il prossimo 8 agosto, Meyer arriva dalla Staatsoper di Vienna che guida dal 2010: il suo contratto in scadenza nel 2020 non è stato rinnovato (al suo posto è stato designato da tempo Bogdan Roščić, un manager con esperienze alla Decca e alla Sony, mentre Philippe Jordan assumerà la carica di direttore musicale).
Nel curriculum del probabile nuovo sovrintendente scaligero ci sono studi economici e una lontana esperienza politica con il governo francese prima della trafila con i teatri: direttore generale all’Opéra di Parigi negli anni del varo dell’Opéra Bastille, quindi con l’Opéra di Losanna, poi sovrintendente e direttore artistico del Théâtre des Champs-Élysées, infine la chiamata alla Staatsoper di Vienna. Come dichiarò qualche anno fa a Francesco Arturo Saponaro in un’intervista per “Classic Voice”, Meyer è un convinto sostenitore della figura unica a capo di un teatro e considera superata la tradizionale diarchia italiana fra sovrintendente e direttore artistico. Non ha titoli musicali specifici, ma non lo considera un impedimento: “Chi critica un manager perché non è un musicista – spiegò in quell’intervista – dice una cosa ridicola, molto provinciale”.
Speriamo di non sembrare troppo provinciali se diamo un’occhiata a quello che Meyer ha fatto a Vienna in questi ultimi anni, anche se è ovviamente improponibile un confronto fra un teatro di repertorio come la Staatsoper e un teatro a stagione come la Scala. Nemmeno Karajan era riuscito ad “avvicinare” Vienna a Milano: ci aveva provato sul finire degli anni 50, cercando di portare alla Staatsoper alcune buone abitudini sperimentate alla Scala, ma si era scontrato con l’orgogliosa reazione nazionalista austriaca. È piuttosto da augurarsi che con Meyer non succeda il contrario.
Premesso che la Staatsoper è l’unico teatro europeo di un certo prestigio senza un proprio direttore musicale (Franz Welser-Möst si era dimesso nel 2014 per divergenze con il sovrintendente sulla programmazione artistica), esaminando la stagione in corso 2018/19 si può notare che nessuno degli altri grandi teatri raggiunge la sua produttività, con 50 titoli d’opera (a Monaco di Baviera arrivano a 41, a Dresda a 32, a Zurigo 27) per un totale di 271 recite da settembre a giugno. Il rovescio della medaglia è che su 50 titoli le nuove produzioni sono state soltanto 6, con una percentuale del 12% sulla programmazione complessiva, cifra che pone la Staatsoper all’ultimo posto e ben lontano, per esempio, dal 44,5% di Zurigo, un altro teatro di repertorio ma che cerca di proporre sempre cose nuove.
Nella stagione 2017/18, la Staatsoper di Meyer aveva presentato 54 titoli d’opera per 225 recite. Interessante spulciare alcune cifre nel bilancio pubblicato sul sito del teatro, molto dettagliato per quel che riguarda gli spettatori di ogni recita (dati che nel bilancio della Scala e in quelli di altri nostri teatri sono generalmente omessi). Dunque: su 54 titoli in cartellone, la copertura dei posti da parte del pubblico è stata molto spesso del 99% o del 100%, comunque sempre superiore al 94% con una sola eccezione (l’88,29% per Kát’a Kabanová). Va rilevato però che 15 dei 54 titoli programmati hanno ancora allestimenti che risalgono al secolo scorso. La Tosca con la regia di Margarita Wallmann è del 1958 e da allora ha totalizzato 604 recite. Anche la Bohème zeffirelliana e il Barbiere di Günther Rennert hanno superato le 420 rappresentazioni. Verrebbe da dire che Vienna con Meyer ha proposto l’idea di teatro d’opera come museo di antiche glorie.
La stagione viennese 2019/20, già annunciata, non si discosta da quelle precedenti: i titoli operistici saranno addirittura 55, ma le nuove produzioni soltanto 5. Tra queste ci sarà anche una prima assoluta, Orlando di Olga Neuwirth, rara incursione nella contemporaneità (con altri due titoli) in un cartellone che come nelle stagioni passate si affida quasi interamente al grande repertorio austro-tedesco (Mozart, Wagner, Richard e Johann Strauss) e al melodramma italiano, con Verdi naturalmente al primo posto. I direttori di primo livello scarseggiano, con qualche eccezione (poche, vista la quantità di rappresentazioni: Mariotti per Un ballo in maschera, Muti per il Così fan tutte già visto a Napoli, poi qua e là Thielemann, Harding, Chung, Mehta) mentre gli allestimenti recano ancora spesso firme storiche del passato (da Zeffirelli alla Wallmann, da Ponnelle a Schenk a Rennert) e i più innovativi registi di oggi sono del tutto assenti.
Arrivando alla Scala, ovviamente, Meyer dovrà adeguarsi alla storia e alla diversa impostazione culturale del teatro. Ma su una cosa può stare tranquillo, qui sarà giudicato per i risultati che raggiungerà a Milano, indipendentemente dai titoli professionali (musicista o no) e da quello che ha fatto a Vienna.
Mauro Balestrazzi
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