Non c’è la Spagna esotica nella Carmen di Jacopo Spirei (nella foto, ndr), titolo inaugurale del Macerata Opera Festival, che dal 19 luglio all’11 agosto porta allo Sferisterio tre opere fondate su posseso e gelosia come Macbeth con la regia di Emma Dante e Rigoletto di Federico Grazzini ripreso dalla produzione del 2015. La nuova Carmen, diretta da Francesco Lanzillotta con Irene Roberts nel ruolo del titolo e Matthew Ryan Vickers in Don José sarà invece ambientata nella Parigi della seconda metà dell’Ottocento, quella in cui Bizet la concepì e la mise in scena.
Spirei, perché ha scelto di traslocare da Siviglia?
“Perché Carmen è innanzitutto un’opéra-comique, nata in Francia e in realtà assai poco spagnola. Tutti i numeri per così dire “spagnoleggianti” hanno preso molto dai Café chantant. L’elemento iberico sembra più un richiamo esotico-decorativo come può essere il coro delle zingarelle e dei mattadori in Traviata, o le turcherie dell’opera settecentesca”.
Parigi, oltretutto, le consente di avvicinarsi di più alla realtà di oggi.
“Indubbiamente. È in quell’ambiente che si sviluppa tutto quello che oggi conosciamo in fatto di droghe, usi e abusi della carne, feticismo, culto delle star. Io credo che Bizet abbia usato la Spagna come uno schermo, per prendere le distanze dal suo mondo, proprio come ha fatto Verdi mettendo Falstaff in Inghilterra, per criticare ancora più aspramente la sua società”.
Il destino di Carmen è una tragedia sociale o individuale?
“È un’opera a più livelli, tutt’altro che ovvia nelle sue implicazioni e totalmente priva di moralismo. Ha moltissimi momenti di leggerezza e, se posso spingermi a dirlo, l’omicidio perpetrato da Don José è assolutamente imprevedibile”.
Omicidio o femminicidio?
“Omicidio sarebbe una parola sufficiente a spiegare il fatto in sé. Ma nel mondo di oggi purtroppo serve un vocabolo in più. Serve, perché l’uomo ha ancora problemi ad accettare l’emancipazione femminile senza farne una questione. E allora sì, c’è necessità ancora di puntualizzare con la parola femminicidio”.
Quindi Don José, alla lettera, è un femminicida?
“È un uomo che sviluppa un’ossessione immotivata per una donna che non mente mai e che alla fine non riesce più a capire, lei e pure la grande città di cui non comprende i valori. In Carmen esordisce da puro, e alla fine viene inghiottito in una spirale discendente”.
Carmen invece non subisce questa evoluzione. In fondo rimane sempre ciò che è.
“Sì, la sua leggerezza se la porta dall’inizio alla fine. È un personaggio di una contemporaneità sbalorditiva, anche se a distanza di quasi un secolo e mezzo le si sono sovrapposti tantissimi filtri. Ecco, noi cercheremo di toglierli il più possibile”.
A cosa guarda un regista appena mette piede sullo sterminato palcoscenico di Macerata?
“Cambiano le dimensioni, ma i principi sono gli stessi. Si comincia sempre dal pianoforte, dal testo e dalle prove coi cantanti. Poi, chiaramente, avendo a che fare con un palcoscenico che è il triplo di un teatro di grandi dimensioni, occorre pensare a una scenografia che dialoghi con lo spazio”.
Luca Baccolini
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