SIRACUSA
[interpreti] M. Mazzola, C. Sacco, A. Vella, V. Salerno, G. Garofano, F. Prestigiacomo
[regia] Pietro Carriglio
[teatro] Greco
Cassandra sa e il violoncello solo che l’accompagna canta echi di Filippo II dal “Don Carlo” di Verdi. Chi sa, chi comprende le dinamiche inflessibili del potere, è sempre solo.
È una felice intuizione di Matteo D’Amico, autore delle musiche per l’Orestiade di Eschilo, il trittico – Agamennone, Coefore, Eumenidi – protagonista della stagione del Teatro Greco di Siracusa. Il luogo magnifico è capace di seimila posti, che in più di una serata sono andati esauriti, anche grazie alla presenza di studenti delle scuole superiori, non solo siciliane. È un privilegio che tanti ragazzi di oggi possano frequentare, almeno per una sera, questi testi, la loro intatta attualità, la vera bellezza. Lo spettacolo di Pietro Carriglio, autore anche di scene e costumi, propone una convivenza di epoche diverse: i personaggi vestono per la maggior parte abiti riferibili al periodo classico, ma si muovono in ambiente razionalista, ispirato all’Eur di Roma. Le piazze, i vuoti, il bianco dei marmi, la vastità di spazi “alla De Chirico” dove ogni presenza umana sembra, più che colmarli, esserne inghiottita. I segni di un’arcaica ritualità, in particolare nella sepoltura di Agamennone (Giulio Brogi) e nei troppo prolungati movimenti corali delle Eumenidi, non impediscono a Oreste (Luca Lazzareschi) di vestire come un uomo di oggi, mentre sua madre Clitennestra (Galatea Ranzi) indossa un’ampia veste rossa. Atena (una trionfante Elisabetta Pozzi) è la dea utopica che, alla fine di quel trittico di sangue, chiama gli uomini a giudicare: nasce il primo tribunale della storia, la legge civile, non più di clan e attribuita alla volontà, o al capriccio, degli dei. È – era – l’alba della democrazia, ma Cassandra (il temperamento di Ilaria Genatiempo) non è riuscita a vederla. La traduzione prescelta è stata quella che Pier Paolo Pasolini curò nel 1960, proprio per un’Orestiade diretta allora, nello stesso teatro, da Vittorio Gassman. La sua lingua dura e colta, diretta e sapiente, non ha perso di personalità.
D’Amico mette i sei musicisti in scena, alla sinistra della cavea: il quartetto di sassofoni di Miele Mazzola, Carmelo Sacco, Alfonso Vella, Vincenzo Salerno; il violoncello di Giorgio Garofano, le percussioni e la fisarmonica di Francesco Prestigiacomo. Iscritti al Conservatorio di Palermo, affidabili, felici di questa opportunità. Sono loro a dare il via allo spettacolo; si inizia, come da tradizione greca, prima del tramonto, si finisce quando il buio sta scendendo. Il trittico è diviso in due serate: dapprima il solo Agamennone, poi gli altri due titoli.
La musica coglie i registri dominanti dello spettacolo, nel riconoscibile richiamo – grida, invocazioni accecate di sole – a canti senza tempo del folklore siciliano, nel vagare solitario di nostalgia della fisarmonica, nell’evocazione misterica di cui sono capaci le percussioni, nella felicità speranzosa, haendeliana, del finale. D’Amico è fine drammaturgo: straniamento e ironia accompagnano il dialogo tra Clitennestra e Agamennone tornato dalla guerra di Troia. Moglie e marito si scambiano convenevoli, ma lei ha già deciso di ucciderlo e lui sa cose non piacevoli riguardo al suo comportamento. Numerosi gli interventi cantati del coro, omaggio al suo ruolo nella tragedia classica. Le arie solistiche sono scritte tenendo conto delle possibilità degli interpreti. Mai decorativa, la partitura diventa così parte integrante dello spettacolo.
Sandro Cappelletto