interpreti L. Bonilla R. Lupinacci, V. Stajkic L. Cortellazzi, C. Senn P. Marrocu direttore Sesto Quatrini orchestra Accademia Teatro alla Scala regia Cecilia Ligorio regia video Matteo Ricchetti dvd Dynamic 37832
Certo, “Ah! se tu dormi, svegliati”. Il finale di Vaccaj che la spensierata e furba diva Malibran costumava piazzare al posto della sublimissima scena conclusiva dell’opera di Bellini, il cui recitar cantando è di tale levatura da essere incompatibile con la comprensione della quasi totalità del pubblico dell’epoca (ma anche adesso, si sente sospirare per la mancanza d’una pimpante cabalettona ipervirtuosistica…). Tanto sublime che, volenti o nolenti, riecheggia molesto nella mente nel mentre s’ascolta un brano molto ben scritto, molto insolito per l’arpa che stilla sulla linea vocale, in generale molto in linea coi sacri dettami melodici d’estrazione Scuola Napoletana cui s’affidò Vaccaj per campare nella breve e per lo più arida terra di mezzo tra gli ultimi fuochi rossiniani (di due anni più giovane di lui) e le prime vampate bellinian-donizettiane: gradevole, senz’altro, ma che uscendo nella fresca notte martinese già si ricordava a stento. Laddove dalla plastica scolpitura del declamato-arioso belliniano si ripercorre a ritroso tutta la partitura restata imperitura nella memoria… Comunque.
Comunque val sempre la pena riempire un “buco” di cui c’è contezza ma non documento sonoro con relativa verifica scenica. Purché lo si riempia bene e con adeguato criterio musicologico. Qui l’esecuzione è lodevole, ma il lato musicologico subisce un vulnus grave e inspiegabile: tanto più in un festival che da sempre ha pretese di riscoperte. Vaccaj ha scritto recitativi secchi, puntualmente rispettati nell’ottima edizione critica di Ilaria Narici: e perché cavolo li ascoltiamo con un accompagnamento orchestrale frutto della discutibile fantasia del direttore e della pianista martinese Carmen Santoro? C’entrano niente, il fuori stile s’avverte e infastidisce parecchio. Peccato, perché in generale la direzione è molto precisa e accurata, quantunque un po’ di accensione in più non credo avrebbe nuociuto: specie perché l’orchestra della scaligera Accademia si rivela assai ben preparata e duttile (niente male il corno che accompagna l’arrivo di Romeo nella tomba), con un suono elegante di stile impeccabile; qualità peraltro ottimamente condivisa col coro del Municipale piacentino, che canta con vigore e bell’aplomb, recitando per giunta assai bene.
L’impianto scenico di Alessia Colosso, tenuto conto delle non debordanti possibilità del palcoscenico, è molto intelligente: gran muro in diagonale in cui si apre la stanza-tomba di Giulietta e in cui si svolgono anche efficaci controscene durante certi episodi corali in basso. E particolarmente intriganti i costumi di Giuseppe Palella. Dato che l’opera tralascia tutto l’incontro e iniziale innamoramento dei due amanti principiando coi preparativi di guerra, i Capuleti sono tutti in nero e i Montecchi in candido ammanto ed entrambi strizzano l’occhio alle pellicole fantasy danno luogo a movimenti di notevole suggestione, grazie anche al concorso di sei mimi bravissimi. In generale la gestualità organizzata dalla Ligorio è efficace: l’adolescenziale ruvidezza di Romeo, la sensualità rapinosa di Giulietta, il rapporto secco e arido dei genitori di lei, la protervia di Tebaldo sono tutti tratti individuati e resi assai bene, senza un momento di stasi che giova assai a una partitura al riguardo alquanto divagante.
Bravissima Leonor Bonilla, linea ben appoggiata e proiettata (specie in alto), ottimo legato, fraseggio eloquente, figura accattivante e recitazione spigliatissima; magnifico il timbro della Lupinacci, e linea anch’essa di ottimo imposto, quantunque un filo debole in basso: e la suddetta tanto famosa scena finale di Romeo la canta davvero bene. Se troppo rozzo e sguaiato è il Tebaldo di Vasa Stajkic, i due Capuleti sono figure di spicco più scenico che vocale a causa d’una scrittura non proprio memorabile: ma Leonardo Cortellazzi e Pauletta Marrocu, con la loro scolpitura di fraseggio e la loro padronanza scenica (forte momento, quando lei scaccia il marito dal cadavere della figlia) lo fanno del tutto dimenticare.
Elvio Giudici
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