MILANO
[interpreti] M. Didykl, K. Opolais, V. Ognovenko, S. Toczyska
[direttore] Daniel Barenboim
[regia] Dmitri Tcherniakov
[teatro] alla Scala
Il palcoscenico della Scala torna ad essere Roulettenburg, la Las Vegas ante litteram dove il demone del gioco distrugge le sue vittime, derubandone patrimoni e dignità. La prima volta fu otto anni fa con un allestimento di Teimur Tchkeide per il Mariinskij di San Pietriburgo diretto da Valerij Gergev; ora, una coproduzione con la Staatsoper di Berlino andata in scena quattro mesi fa: quanto allora musica e scena erano imperniati su una nevrosi al limite della tragedia, tanto ora sono basate su un descrittivismo crudele dei vari personaggi e delle loro spesso grottesche situazioni. Prokofiev aveva 24 anni quando per la sua prima opera scelse l’omonimo romanzo – parzialmente autobiografico – di Dostoevskij traendone egli stesso il libretto. Nella primavera del 1916 l’opera era terminata ma il debutto al Mariinskij, previsto per il febbraio successivo, slittò per una serie di contrattempi cui si aggiungeva la preoccupazione dell’impresario per una musica troppo moderna, addirittura futurista. Rivoluzione d’ottobre e partenza del compositore fecero accantonare il progetto, che parve irrealizzabile anche al ritorno di Prokofiev in patria, nel ‘27, per l’atteggiamento antimodernista del regime: nel ‘29, dopo una significativa revisione, l’opera vide finalmente la luce a Bruxelles. Assecondato da un’orchestra preparatissima, perfetta in ogni settore, Daniel Barenboim ha letto la difficile partitura descrivendo con autentiche scudisciate sonore “la divorante ansia del gioco” che, per citare una felice intuizione di Rubens Tedeschi, “si rispecchia in esplosioni rotte e precipitose”; ma lo ha fatto piegando il virtuosismo strumentale a esiti espressivi ora di graffiante incisività ora di toccante lirismo. In perfetta sintonia, l’ancor giovane regista russo (lo ritroveremo nella prossima stagione alla Scala con l’Onegin e a Torino con La dama di picche) ha presentato i personaggi non come dannati del vizio ma quali esseri umani preda delle loro debolezze che tentano di riscattare con una spasmodica quanto sterile sfida alla sorte. Per rendere più unitaria la sottile e composita trama drammaturgica, Tcherniakov ha fatto ruotare l’azione attorno alla volubile e algida Polina, che ha trovato in Kristine Opolais un’interprete di agghiacciante lucidità: sua prima vittima, Aleksej, il giovane protagonista cui Misha Didykl ha infuso un’incontenibile vitalità. Di pari livello non solo gli altri interpreti principali (fra cui, ottimi Vladimir Ognovenko, il generale, e Stefania Toczyska, la gaudente Nonnina), ma anche i trentun personaggi minori, tutti roulette-dipendenti, ognuno con una personalità ben definita, che, pur con battute assai brevi, sono parte integrante dell’azione, ambientata in un moderno hotel-casinò, elegante quanto gelido. A seconda delle fasi del racconto, la scena si sposta in orizzontale mostrando – talora in contemporanea – ora la grande hall, ora le stilizzate e asettiche camere dei clienti, ora la rutilante sala dei giochi.
È proprio alla scena che dobbiamo l’ottima acustica di cui si è potuto godere: essendo provvista di soffitto, consente alle voci di venir proiettate in sala anziché essere risucchiate nel vuoto della nuova, enorme torre scenica. Un risultato acustico ottimo che nella Scala ristrutturata si è potuto apprezzare solo con la Salome diretta da Harding, anch’essa provvista di soffitto.
Giancarlo Cerisola