TORINO [interpreti] G. Filianoti, M. Bacelli, C. Remigio, D. Pini, R. Harnisch [direttore] Roberto Abbado [regia] Graham Vick [teatro] Regio
Vick sostituisce i Fori dell’imperatore Tito con un elegante interno anni Trenta, in radica decorata con tarsie di monumenti romani, aperto su un portico piacentiniano. Scandalo? Affatto. Tito non era una mammoletta grondante miele della bontà: era un potente che viveva da potente assoluto, in un’epoca dove pubblico e privato si permeavano d’identica violenza. Si dice che a ciò s’opporrebbe la musica permeata invece degli stessi ideali di fratellanza universale riversati nel Flauto magico. In teoria, sì. Ma sappiamo bene che quanto più grande è una musica, tanti più significati le si possono attribuire. Allora, se si ipotizza un Tito potente assoluto, sì, ma di carattere fragile, che al termine d’una vicenda destinata a lasciarlo nella più amara solitudine decida d’imporre la ‘clemenza’ quale unico mezzo onde affermare una personalità sempre tragicamente inferiore alle altre: se ipotizziamo questo, davvero la musica vi s’oppone? No: la sua maestosa aulicità funziona da contrappunto tragico a quel Tito, sicuro del suo potere, seduto al proscenio su una sedia nobile, le spalle volte agli altri che ne cantano ossequiosamente le lodi, gli occhi sbarrati e un sorriso nevrotico che è quasi un ghigno. E così, a ritroso sulla vicenda, viene gettato un ponte a riassumerne lo spessore teatrale affatto insolito.
Quel salotto altoborghese dove fanno capolino gerarchi in orbace, vibra di violenza sotterranea che noi avvertiamo senza bisogno di eccessive sottolineature perché è un’epoca che conosciamo, seguendone meglio gestualità e atteggiamenti (e con Vick non recitano solo i singoli: memorabile l’entrata del coro degli invitati – la corte – sul tema di Marcia, a ‘dare oro alla patria’ col tipico sorriso compiaciuto del povero cristo per un attimo al centro dell’attenzione, ma quando Tito destina i gioielli ai diseredati le dame vorrebbero riarraffarli, eh no carina giù le mani, e quella damazza stile Elsa Merlini dei telefoni bianchi a guardarlo malissimo…): le definizioni psicologiche risaltano dunque più nitide sopra un fondale storico-sociale di cui abbiamo idea ben più precisa rispetto alla sempre generica quindi inoffensiva classicità. Formidabili, poi, taluni snodi narrativi. Come Vitellia usi il sesso per fini politici e privati, ad esempio: sdraiata a gambe larghe per terra attirando su di sé Sesto che esala un ‘Parto, parto’ dove nella stupenda sospensione sonora aperta dall’orchestra mai altrettanto tangibile è parso il perdersi dei sensi, di contro a lei sempre presente a se stessa. Cos’è il fronteggiarsi tra Sesto e Tito che vuol sapere perché ha tentato d’assassinarlo!: due sedie soltanto, vicinissime, e sguardi, gesti, atteggiamenti tutti calibrati nota su nota. Teatro musicale e di parola resi una cosa sola. Mr.Vick you are a genius.
Roberto Abbado, alla guida di un’orchestra di tanto più brava in quanto abilissima nell’impiegare strumenti moderni suonandoli all’antica, con archetti e timpani barocchi, trombe e corni naturali, plasma una concertazione di mirabile trasparenza dove nitido si discerne ogni sia pur fitto intrico contrappuntistico; suoni morbidi, compatti, mobilissimi; dinamica tirata all’estremo ma sempre adesa al divenire psicologico di personaggi che orchestra e scena precisano in simbiosi totale. Bravo Giuseppe Filianoti, ancorché con diverse zone opache di fatica; grande artista Monica Bacelli che, con una voce assai limitata, riesce ad esprimere tutto; memorabile Carmela Remigio, linea omogenea, salda, tutta sul fiato e benissimo proiettata; da seguire col massimo interesse Daniela Pini, mentre si riascolta con immutato piacere Rachel Harnisch.
Giancarlo Cerisola