Daugherty – Jackie ’O

[direttore] Christopher Franklin
[regia] Damiano Michieletto
[orchestra] Comunale di Bologna
[ensemble corale] Gianluigi Giacomoni
[teatro] Rossini

Wayne Koestenbaum (libretto) e Michael Daugherty (musica). Jackie ‘O, l’opera commissionata e rappresentata nel 1997 dal Houston Grand Opera, culla del teatro musicale nordamericano a partire dagli anni Settanta (tra gli altri titoli, vi hanno visto la luce anche Nixon in China di Adams e A Quiet Place di Bernstein), fornisce all’osservatore interessato un eccellente punto di vista dal quale scrutare per l’appunto questo filone (para)operistico. Parole d’ordine: credere nella musica, trasmettere emozioni all’uditorio e, quanto al linguaggio, mescidare stili e lessici, ovvero, come usa dire, “contaminare”. Daugherty, in questo senso, può aspirare al rango di paradigma: solida formazione accademica (Manhattan School of Music, Ircam di Parigi, Yale, corsi con Ligeti in Germania) unita a pratica jazz (con Gil Evans) e pop. Alla comunicazione diretta tra autore e pubblico (l’esatto contrario delle tesi propalate dai seguaci di Darmstadt), corrisponde un’astrazione simbolica sul piano dei testi: sulla scena statunitense (inclusa quella di prosa: O’Neill, Miller, Tennessee Williams), giusta un insopprimibile furore didattico, vige la regola dell’allegoria morale nascosta sotto il velo d’un intreccio e d’un ambiente realistici. Così Jackie ‘O, offerta in prima italiana nel piccolo scrigno del Teatro Rossini a Lugo di Romagna, e offerta secondo una veste eccellente, dietro i casi della vedova Kennedy che, nel mentre riprende a frequentare il jet set (Andy Warhol, Grace Kelly, Liz Taylor), incontra Onassis, deciso a farla sua scaricando la Callas, mette in realtà sul tappeto un bel po’ di temi, e non dei meno spinosi: un’icona nazionale-omosessuale (Jacqueline) e una mondiale-omosessuale (la Maria) si confrontano, opponendo due opposte concezioni del femminile; la reificazione della creatività nel Pop Art; l’elaborazione di un lutto personale, ch’è al tempo stesso quello d’un’epoca intera (dialogo coll’ombra di Kennedy: una sorta di discesa negli inferi del subcosciente); la crisi della società americana intorno al ’68; l’utopia d’un mondo migliore. La musica asseconda siffatta congerie ricorrendo a vocaboli e sintassi sanzionati da un uso pluridecennale nel teatro per e con musica d’oltreoceano: la collana di pezzi, tutti rigorosamente chiusi e legati tra loro da recitativi cantati su note ribattute (quasi una gregoriana “corda di recita”) o declamati in forma di melologo (parlato su accompagnamento strumentale), consente di alternare e mescolare musical, jazz, ritmi di danza (habanera e tango, su tutti), songs intimistici e qualche parodia mai aggressiva (la Callas cita La Traviata, il fantasma del presidente assassinato guarda al Giro di vite). Prendere per buona l’accusa d’“incomprensione” tra poeta e compositore avanzata da Davide Daolmi sul programma di sala, significherebbe negare esistenza ed essenza a oltre 70 anni d’opera americana: tanti ne sono passati dai tempi dei giovani Menotti e Blitzstein (The Cradle Will Rock è del 1937). I due atti di quest’opera da camera hanno potuto contare su una direzione e una messinscena assai empatiche di Christopher Franklin e Damiano Michieletto: spigliate, vivaci, anche pensosa quando occorra, con scene e costumi perfettamente in clima Warhol (elemento dominante un’immensa lattina di zuppa Campbell). Bene l’Orchestra del Comunale di Bologna e la compagnia, tutta in parte per voce e figura, se non sempre per pronuncia inglese. Un bravo di cuore al piccolo ensemble corale messo insieme per l’occasione (Gianluigi Giacomoni) e pressoché pronto per sbarcare a Broadway.

Jacopo Pellegrini


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306 Novembre 2024
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