F. Vassallo, R. Mantegna N. Surguladze direttore Roberto Abbado orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna regia Robert Wilson 2 dvd (anche 2 cd) Dynamic DVD Video 37835
L’accoppiamento dvd e cd risulta significativo in rapporto alla peculiarità della fonte: si tratta infatti di una registrazione dal vivo dello spettacolo realizzato nell’ambito del Festival Verdi al Teatro Farnese di Parma nell’ottobre del 2018, location prescelta per il momento più sperimentale della manifestazione parmigiana, nel senso di un rapporto più creativo tra spettacolo e proposta musicale, quest’ultima inevitabilmente penalizzata dai vincoli acustici dello storico teatro. Ecco dunque l’utilità di ritrovarla meno compromessa nel cd. Le Trouvère costituiva già di per sé una primizia, dopo che nei lontani anni 90, al decollo un po’ velleitario del Festival (allora “Verdi Festival”) il confronto con Il Trovatore, proposto con dichiarati intenti filologici, fu vanificato inesorabilmente dalla forma oratoriale e dal taglio dei balletti, vale a dire la principale ragione del confronto. L’elemento provocante di questa nuova ripresa era senz’altro la presenza di Bob Wilson quale “interprete” verdiano. Un incontro avvenuto qualche anno prima a Bologna con Macbeth, realizzato sempre in collaborazione con Roberto Abbado, occasione per mettere a fuoco su un terreno incandescente la sua concezione di teatro totale che esclude racconto, psicologia e quant’altro per ricreare attraverso l’astrazione un nuovo senso del dramma, immaginando un rapporto con lo spazio e col tempo diverso, regolato da una ritualità scandita soprattutto dalla luce. Se in quel Macbeth si aveva l’impressione che la dimensione del “fantastico” non trovasse una completa assimilazione nella radicalità di quella concezione, con questo Trovatore francese la cifra è parsa esemplare, frutto di una sfida che per l’architetto texano dai molti volti è iniziata con lo stesso spazio del Farnese, un’insidia sgomentante – a parte i problemi acustici – da neutralizzare con la creazione di un proprio spazio, rigorosamente squadrato, entro cui rinnovare la tensione strutturale di un’opera come il Trovatore, “il più assurdo e il più pazzo dei melodrammi”, un emblema del nostro melodramma ottocentesco, imbozzolato com’è in quella sua struttura estremamente stringata, nelle simmetrie offerte dalle quattro parti, ognuna divisa in due, e dal gioco in sequenza dei “racconti”, che sembra quasi impossibile farne oggetto di un’osservazione più decantata; davvero “oggetto senza manico, scotta” con la sua fulminante intuizione l’aveva definito Barilli, “un’identità. Pesa venticinque chili e sulla bilancia sono venticinque chili”. La forma è sostanza, pensa con convinzione Wilson e lo dimostra con questa lettura scenica, a cominciare da quella gestualità stilizzata, di tradizione orientale, nel fissare il narrare con una misura sublimata che riscatta di colpo tanto ciarpame manieristico accumulato dal melodramma. Una misura che convive con lo svolgimento in maniera impalpabile, enigmatica ma sicurissima: un neon che si accende in un “crescendo”, una delle spie che si stagliano sulle nude pareti che cambia colore ad una modulazione, il passo stilizzato delle masse in controluce, un ritmo scenico insomma assorto, stranito, ravvivato poi da sortite allusive che stuzzicano l’ingegno e la memoria, come quel vecchietto barbuto (per il quale pare abbia posato, si dice, il re di uno dei famosi loggionisti parmigiani) che seduto comodamente su una poltrona attende già lo spettatore prima che si alzi il sipario per seguire poi tutta la vicenda, partecipando addirittura a quelle danze, subite da Verdi col trasferimento francese, un “atto dovuto”, impiccio evidente al “far breve” che Wilson risolve con un colpo d’ala surreale trasferendo l’energia vitale dai tutù e dalle scarpette rosa ai guantoni da pugilato, in uno sfrenato happening, regolatissimo naturalmente.
Come già era avvenuto nel Macbeth si poteva cogliere la sintonia con il percorso tracciato da Roberto Abbado alla guida dei complessi del Comunale di Bologna, una linea di coerenza nel modo di gestire il filo musicale con un’essenzialità che pareva riflettere l’intendimento verdiano della “brevità e sublimità”, prolungandone l’imperativo ricreato visualmente dal regista. Un quadro che trovava riscontro nell’equilibrio di un cast pienamente inserito entro la totalizzante prospettiva ideata da Wilson: il Manrique un po’ anemico timbricamente ma non rinunciatario di Giuseppe Gipali, la Lèonore sicura, luminosa di Roberta Mantegna, il Compte de Luna deciso di Franco Vassallo, Azucena incisiva quella di Nino Surguladze, e ancora il solido Fernand di Marco Spotti, il Ruiz di Marco Casalin, Inès di Tonia Langella e il Vieux Bohémien di Nicolò Donini.
Gian Paolo Minardi
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