Faccia a faccia con la modernità, affrontata senza paure. Nato in una famiglia di tradizioni musicali nel 1925 (il suo primo insegnante fu suo padre; al Conservatorio di Milano successivamente studiò composizione con Paribene e Ghedini e direzione d’orchestra con Votto e Giulini, con Dallapiccola, a Tanglewood negli Stati Uniti), Luciano Berio fonda a Milano – nel 1955 assieme con l’amico Bruno Maderna – lo Studio di fonologia della Rai, dove vedono la luce le prime composizioni elettro-acustiche: il compositore ligure era fondamentalmente un pioniere, un esploratore (alla fine degli anni Settanta sarà nell’epique dell’Ircam di Parigi; nel 1987 fonderà a Firenze un nuovo istituto di ricerca, “Tempo reale”). Tra il 1960 e il 1972, mentre gli intellettuali italiani brillavano per un sostanziale antiamericanismo, visse, studiò e insegnò – oltre che a Darmstadt – a Darlington, a Harvard, alla Juilliard e alla University of Columbia. Ancora: quando la intellighenzia progressista italiana dubitava delle virtù dell’arte “popolare”, condusse studi particolari sulla musica etnica e “leggera”, anticipando la conciliazione tra cultura alta e bassa, sapere e folclore. Il teatro musicale era dato per morto e sepolto dalle giovani avanguardie. E invece Berio, studiando senza tregua le possibilità espressive della voce umana (si ricorda il sodalizio con la cantante armena
Cathy Berberian), affrontò – già con Passaggio e Laborintus – il problema di una nuova concezione rappresentativa. I compositori della sua generazione avevano rifiutato ogni compromesso con le istituzioni musicali ufficiali; lui si rese disponibile a un nuovo “impegno” del musicista nell’organizzazione della musica, soprattutto negli ultimi anni, svolgendo le funzioni di presidente-sovrintendente dell’Accademia di Santa Cecilia.
Andrea Estero