interpreti E. Herlitzius, W. Meier, A. Pieczonka, M. Petrenko direttore Esa-Pekka Salonen regia Patrice Chéreau scene Richard Peduzzi orchestra Orchestre de Paris teatro Grand Théâtre de Provence AIX-EN-PROVENCE
AIX-EN-PROVENCE – Non ha deluso le grandi attese la Elektra di Strauss a Aix, che vedeva per la seconda volta collaborare Esa-Pekka Salonen e Patrice Chéreau (si erano incontrati alla Scala in Da una casa di morti di Janácek): aveva davvero caratteri di eccezionalità, come eccezionale è stato il trionfo con cui è stata accolta al Festival d’Aix. È coprodotta con la Scala (dove la vedremo nel maggio 2014), il Metropolitan e i teatri di Helsinki, Barcellona e Berlino (Staatsoper). Con Elektra (Dresda 1909) Strauss aveva creato la sua partitura più violenta e più ardita, posta sotto il segno di una inquietudine incessante, spingendosi talvolta ai limiti della tonalità, accogliendo con immediatezza gli stimoli ricevuti dalla tragedia di Hofmannsthal del 1903, di cui musicò direttamente il testo con i necessari tagli (e con limitati interventi dello scrittore). L’atmosfera d’incubo suggerita da Hofmannsthal ispira a Strauss pagine tra le sue più visionarie e più vicine all’Espressionismo, offrendo al musicista una struttura drammaturgica e formale perfettamente congeniale, una ricchezza di sollecitazioni e di contrasti che il compositore accoglie con sensibilità febbrile e mobilissima. Di fronte a questa musica Chéreau e il suo scenografo, Richard Peduzzi, artefici anni fa di un Wozzeck “geometrico”, mostrano che quella espressionistica non è la sola cifra figurativa possibile. L’unica scena fissa, il cortile del palazzo, presenta la sobria nitidezza di un quadro di Casorati. In ogni aspetto della regia c’è qualcosa di trattenuto, di raggelato, che evita l’esasperazione esteriore e accresce la tensione, scavando in ogni dettaglio a scoprire sfumature nuove. Questa chiave di lettura si incontra benissimo con l’interpretazione di Salonen, che in orchestra evoca sonorità taglienti e prosciugate, con forte penetrazione analitica, sottraendosi ad ogni rischio di pesantezza, esaltando piuttosto la nervosa mobilità, la tensione insostenibile, senza alcun eccesso di estroversione, ma con una straordinaria cura del dettaglio.
L’intensissima Evelyn Herlitzius fa di Elettra una creatura fragile, posseduta dal ricordo incancellabile del padre e dalla sete di vendetta che consuma la sua esistenza e le rende poi impossibile continuare a vivere. Il riconoscimento di Oreste sembra segnato da una tenerezza incredula, attonita. E la conclusiva danza di gioia quasi non ha luogo: Elettra si muove a fatica e alla fine rimane seduta, annichilita. Nella solitudine e nell’estraneità cui sono condannate Elettra, la sorella Crisotemide e la madre Clitennestra si avverte anche un disperato bisogno di tenerezza. Essa è invocata esplicitamente da Crisotemide (la brava Adrianne Pieczonka), in furibonda ansia di vita; ma tra gli incubi è desiderata in segreto anche da Clitennestra, che grazie ad una magnifica Waltraud Meier appariva più giovane, più bella del solito, e assai meno viscida e ripugnante, quasi una vittima anch’ella del destino. Oreste (l’ottimo Mikhail Petrenko) la uccide stesa a terra quasi in un ultimo abbraccio e lascia poi colpire Egisto (Tom Randle) dal precettore. Non ci sono macellerie né fiumi di sangue, in questa Elektra.
Paolo Petazzi