Bartók – Il castello di Barbablù

Bartok - Il castello di Barbablu

interpreti R. Lloyd, E. Laurence
 direttore A. Fischer
 regia video L. Megahey
 orchestra The London
 Philharmonic Orchestra
 formato 4:3
 sottotitoli Ingl.-Fr.-Ted.
 dvd Warner Classics Nvc Arts 5051865705222

È una voce splendida e potente, sensuale e carezzevole, quella che apre a Judit il suo misterioso castello nella prima registrazione ufficiale del capolavoro di Bartók (cd Arlecchino), affidata alle cure dell’eccelso direttore praghese Walter Süsskind. Siamo a Londra, nel 1953, e la scelta degli artefici di questa première non avrebbe potuto essere più ispirata: eccezionale musicista, ma anche sopraffino intenditore di voci, Süsskind afferra al volo l’occasione e chiama per il ruolo di Barbablù (Kékszakállú, nel suadente ed arcaico idioma naturale) l’immenso Endre Koréh, star dei bassi ungheresi, e per Judit punta, stravincendo, su Judith Hellwig, promettente soprano slovacco. Il risultato è da primo premio: la tecnica formidabile dei due protagonisti, le doti timbriche, la facilità del canto lungo l’arco dell’intera aspra tessitura, la sottigliezza del fraseggio, esaltate dalla tensione tragica, ossessiva e sinistra impressa da Süsskind, rendono tuttora questo disco incomparabile, nella pur folta discografia. Cosa rara, che si può, nella fattispecie, spiegare così: i due “cantano”, e per giunta benissimo, con due voci fluviali, e inoltre interpretano, in modo veramente originale. Il Barbablù di Endre Keréh è non solo possente, ma anche malinconico e tenero, insomma ha un volto umano e complesso, mentre la Judit della Hellwig non è una virago invasata e in crisi di nervi, ma una donna che affronta consapevolmente un pericoloso cammino di conoscenza. Quale differenza rispetto alla incisione successiva, affidata nel 1956 a tre mostri sacri, come Mihály Székely, Klára Palánkay e János Ferencsik (cd Arlecchino). I due cantanti ungheresi formavano allora coppia fissa in quest’opera; e tuttavia, sulla base del mero ascolto, manca proprio ciò che nel primo disco affascina tanto, la rotondità e la sapienza del canto: qui è tutto un declamato, a tratti notevole, anche se spinto più verso l’ossessione nevrotica e concitata, e la linea di canto risulta sovente spezzata, se non ritoccata per adattarsi a voci più gravi. Restano impresse la bella e fluida direzione di Ferencsik e, pur con i limiti vocali indicati, la personalità magnetica dei due artisti. Ma proviamo ad ascoltare una sola frase di Koréh (“Ecco, ti do tre chiavi”), cantata con una magnifica mezzavoce, e confrontiamola con la declamazione di Székely: non c’è paragone. Nel 1962, un altro disco “ungherese” (Mercury) si pone, per il canto, sulla stessa linea del precedente:  Olga Szöny affianca Székely, con le stesse riserve; dirige rapinosamente Antal Dorati.
Passano tuttavia pochi anni e la Decca mette in catalogo un’esecuzione che farà epoca: tecnica di registrazione all’avanguardia, orchestra eccellente, direttore di prodigiosa fantasia e coppia astrale (anche nella vita), Walter Berry e Christa Ludwig. Colpisce in questo cd l’umanità di Barbablù, cifra rivelatrice dei grandi interpreti: a tratti cupo e amaro, Berry vira sovente verso il ripiegamento doloroso ed elegiaco, spiegando un’intensa gamma di affetti. Superba la Ludwig, raggiante, luminosa, ma anche vigorosa, nel pieno controllo dei propri cospicui mezzi, con un accento più insinuante della Hellwig e una capacità maggiore di rendere l’acceso erotismo, la seduzione, il languore di Judit (nessuna ha mai più saputo essere così avvolgente nell’implorazione “Barbablù, amami” o una specie di piccola Kundry nel successivo dialogo). Incandescente Kertesz, ma diverso da Süsskind: c’è più compassione, più dolcezza, più espansione lirica intorno alla coppia infelice, rispetto al furore epico del primo.
Nel 1979, Dietrich Fischer-Dieskau, Julia Varady e Sawallisch: un’altra grandissima edizione (Dg). La direzione è trasparente, cartesiana, ma non gelida; la Varady rivisita con intelligenza la versione della donna dominatrice, con un fraseggio sfumato; Fischer-Dieskau intride di fragilità la figura del duca, dotandolo di una dialettica portentosa, ma anche eseguendo in modo sensazionale il quadro finale con un sussurro estatico e trasfigurato, come è riuscito a pochissimi. Nel resto della ricca discografia, non sempre si riesce a fare l’en plein: tanto schiacciante è l’attrazione esercitata dai dischi storici: sono però assolutamente da segnalare le due versioni di Pierre Boulez (Sony Classical e Dg), con due Judit espressive (Troyanos e Norman) e due Barbablù di molto inferiori; a sostenere tutta la narrazione è quindi il solo direttore, che si distingue per la chiarezza cristallina con cui descrive implacabilmente un abisso senza luce. Anche l’ultimissima versione, diretta da Gergiev (Lso Live), vale più per la cupa atmosfera creata dal direttore che per le voci, tutto sommato deludenti.
I video, al momento, sono due film: il primo del 1981 (Decca) è piuttosto kitsch e dimostra tutti i suoi anni (però la scena finale con le tre mogli che incedono maestose ed hanno lo stesso volto di Judit fa impressione); spicca la figura statuaria della Sass, mentre Kováts, oltre che statico, è legnoso e stentoreo. È senz’altro meglio la ripresa televisiva della Bbc (1988): intanto, i due protagonisti, Robert Lloyd ed Elizabeth Laurence,  sono veri cantanti-attori, recitano con naturalezza e spontaneità, anche con gli sguardi, reggono benissimo i primi piani e sono molto efficaci, così da mettere tra parentesi i difetti vocali; inoltre la vicenda si dipana in modo psicologicamente credibile e talune idee registiche sono apprezzabili: da vedere soprattutto, come acme, la scena borghese-matrimoniale nella camera nuziale sulla soglia della settima porta e le tre mogli incatenate nelle nicchie. La direzione, scorrevole e piana, è di Adam Fischer.
Giovanni Chiodi


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