Mozart – Grande Messa in do minore KV 427

Mozart - Grande Messa in do minore KV 427

interpreti M. Persson, A. 
Hallenberg, H. Røming, P. Mattei
direttore Sir John Eliot Gardiner
regia video J. Olofsson
orchestra Royal Stockholm
Philharmonic Orchestra
formato 16:9
sottotitoli Lat.-Ingl.-Ted.-Fr.
dvd Medici arts 2057438

Il binomio Mozart-Dvorák è singolare, ma non impossibile: la Settima del compositore boemo è l’abito della festa di Sir John Eliot Gardiner e, nelle occasioni adatte (come a Stoccolma nel 2008 per il premio Nobel), apre il concerto. E se nella prima parte abbiamo un’esecuzione avvincente, che però non fa dimenticare la potenza leggendaria di Vaclav Talich (Koch), l’eloquenza di Kubelik (Decca), la vis tragica di Giulini (Emi e live Bbc Legends), nella seconda Gardiner (retrocedendo di cento anni esatti) entra praticamente in competizione solo con se stesso. Se infatti disboschiamo la selva discografica della Grande Messa in do minore di Mozart, superando rami secchi e tronchi spezzati, non è difficile imbattersi nel Monteverdi Choir e negli English Baroque Soloists. Un’esecuzione che è sempre stata al vertice: strumenti originali suonati con fantasia, tempi giusti, coro vivido e brillante. Ma qui Sir John gioca un ulteriore asso nella manica: riunisce il Monteverdi Choir con l’Eric Ericson Chamber Choir, ovvero il Gotha. Anche se non di matrimonio si tratta, ma di fugace relazione fra teste coronate, i risultati si vedono (quel via vai di coriste di bianco o di rosso vestite) e soprattutto si sentono con soddisfazione. In più, una volta tanto, abbiamo anche due voci femminili soliste che si danno la replica in modo credibile (deliziosa la Persson, fantastiche le agilità della Hallenberg). Insomma, il marchio svedese funziona, con Gardiner che non rallenta il passo e non rinuncia all’abituale trasparenza. Niente gravità maiestatica, quindi: giusto quanto serve per poi virare a ruota libera verso quella sorprendente summa stilistica che è la grande messa mozartiana, vasto frammento incompiuto di un disegno più ambizioso. Echi di Bach ma soprattutto di Händel e della meravigliosa scuola napoletana, con un devoto omaggio al barocco e alle doti canore di Constanze Weber, appena impalmata contro i voleri paterni: meno virtuosa delle sorelle (Aloysia in testa) ma comunque meritevole di pezzi sublimi, croce e delizia di tutte le interpreti (arie, un duetto, un terzetto, un quartetto). Solito dilemma: orchestra moderna o strumenti originali? Certo, con organici cameristici e tempi equilibrati si possono ottenere più effetti, e in questa direzione si è decisamente andati.  Sembrano perciò provenire da altri mondi esecuzioni come quelle di Karajan o di Bernstein (Dg), che però hanno ancora i loro pregi (certe tenere suggestioni ipnotiche di Karajan nelle arie, lo snodarsi dei cori…). Per una sintesi dei due approcci, basta ascoltare i Berliner con Abbado (Sony 1990: con una Bonney valida, malgrado il gelo; peccato per la Auger in disarmo), che guarda indietro (tempi comodi) ma anche avanti (quell’avvio sottovoce del Kyrie e il pudore delicato ed elegiaco di tutta l’interpretazione). Tra le esecuzioni filologiche è lotta grande: calvinisti ascetici e direttori iperbolici ed estrosi si contendono lo scettro, facendo per giunta uso di edizioni critiche diverse (Robbins Landon, Schmitt, Eder, Levin…). Solo negli ultimi anni si sono susseguiti Christie con Les Arts Florissants 1999 (Erato), McCreesh con il Gabrieli Consort  2004 (Archiv), Krivine con Chamber Philarmonique e Accentus 2005 (Naïve), Langrée con Le Concert d’Astrée 2006 (Virgin). Di Christie si ammirano sempre slancio, eleganza, scorrevolezza, attenzione per il canto (ma la Petibon è filiforme e spesso fissa). McCreesh è senz’altro più asciutto e secco (poco espressiva la Tilling, meglio la Connolly). Krivine persegue (a volte troppo) la ricerca di intimità e scabra sobrietà (brava la Piau, ma più algida e meno incantevole del solito). Langréé è il più eversivo: tempi vorticosi che si uniscono a uno scatto energico, vigoroso, quasi nevrotico. E poi canta la  Dessay: udire per credere cosa diventa la sua parte con vocalizzi che sono sospiri languidissimi, attacchi di purezza abbacinante, scale eteree, per non parlare dell’intensità di accento (cosa rara: un bel contrasto con la Gens, che però arranca in alto e nella coloratura). La filologia disquisisce perfino sulla pronuncia del latino: alla tedesca o all’italiana (Agnus Dei o Aghnus Dei)? La seconda alternativa sembrerebbe così semplice: ma non tutti ci arrivano…
Giovanni Chiodi


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306 Novembre 2024
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