In Italia si fanno i festival operistici che non si dovrebbero fare e non si fanno quelli che si dovrebbero. Il primo caso, clamoroso, è quello del Festival Verdi di Parma. Se c’è un operista che non ha bisogno di essere festeggiato, è proprio Verdi. Intanto perché è già il più rappresentato al mondo, compresi i suoi titoli minori e quelli minimi, concesso e non dato che ce ne siano: vedi la Scala che inaugura a Sant’Ambroeus con la Giovanna d’Arco. Poi perché anche dal punto di vista musicologico quello che c’era da sapere ormai lo si sa, le varie edizioni delle opere che ne hanno più d’una, tipo i Don Carlo(s), Stiffelio/Aroldo, Trovatore/Trouvère, Lombardi/Jérusalem, Macbeth I e II, l’“Innominabile” idem, già messe a confronto, le arie alternative pubblicate, incise, disponibili. E in ogni caso a Parma si guardano bene dal farle, queste operazioni di musicologia applicata. L’infausto Festival si iniziò, un quarto di secolo fa, con un memorabile Trovatore con le cabalette tagliate o omesse, le puntature e i trasporti di tradizione e via adulterando. Mancavano solo i fratelli Marx.
Tuttavia, un Festival Verdi potrebbe servire a fare il punto sullo stato dell’arte, vedere un po’ che spettacoli si fanno in giro, che tendenze interpretative stanno emergendo, portare nella sedicente “culla” verdiana di Parma un po’ di quel che succede nel resto del mondo, insomma fare un Festival che sia un Festival. Sì, figuriamoci: l’ultima edizione si è aperta con un Otello affidato, udite udite, a Pierluigi Pizzi, che novità, che audacia, diretto da Daniele Callegari e cantato da celebrità di provincia. Ora, per essere appetibile in un mondo dove Verdi lo fanno tutti, e molto meglio di così, per diventare un evento internazionale vero e non solo nelle mitomanie locali, un Festival Verdi dovrebbe presentare, che so?, il debutto in Otello di Jonas Kaufmann o di Esa-Pekka Salonen o di Damiano Michieletto. Ma a Parma probabilmente non sanno neanche chi siano costoro, e se per caso lo sapessero e avessero i soldi e la voglia di chiamarli, il loggione li castigherebbe perché non farebbero l’Otello che si è sempre fatto (salvo poi lamentarsi che non ci sono più gli Otelli di una volta…). Oddìo, pare che comunque il loggione parmigiano abbia fischiettato anche l’Otello autarchico. Non so se le contestazioni fossero meritate (mi sono ben guardato dall’andare a vederlo, appunto perché assolutamente non interessante), ma sono di certo il sintomo che questo Festival è peggio che brutto: è inutile.
Ora, il modello per dei festival italiani che abbiano un senso c’è, ed è Pesaro. Certo, anche quel che c’era da scoprire ormai è stato scoperto e negli ultimi anni una linea artistica chiara non c’è stata (ma speriamo nella nuova gestione di Ernesto Palacio: i primi segnali – e il primo cartellone – sono incoraggianti). Però il Rof il suo mestiere l’ha fatto, Rossini l’ha ritrovato, ripulito e rimesso in circolazione. Bisognerebbe applicarne la formula, per esempio, a Donizetti, l’unico dei soliti noti del melodramma italiano ad avere effettivamente bisogno di cure particolari: anche qui, a Bergamo fa ben sperare l’arrivo come direttore artistico di qualcuno che lo sa fare come Francesco Micheli.
Intanto, tutto il repertorio barocco è sostanzialmente dimenticato. A Cremona c’è un Festival Monteverdi, ma non ha i mezzi per metterne in scena le opere. Cavalli, a parte qualche iniziativa della Fenice, è molto più eseguito all’estero che in Italia. E tutta la grande opera napoletana è desaparecida: ormai sembra una rarità anche Il matrimonio segreto. Quindi smettete di fare la festa a Verdi e iniziate a fare un Festival a Cimarosa (e a Paisiello e Vinci e Leo e Porpora e Caldara e Jommelli e Traetta, eccetera…).
Alberto Mattioli
Dec42015
I festival che non si fanno mai
Verdi e Puccini non hanno bisogno di un festival: si fa già dappertutto. Invece nessuno ha mai pensato di dedicare un appuntamento annuale alle opere di Vivaldi e Cavalli o a quelle della scuola napoletana