Come mai ci vuole la ricorrenza – mezzo secolo dalla morte – per ricordare Victor de Sabata? Come mai l’interprete che fu insieme compositore di notevole statura – riascoltare Juventus nella sua esecuzione (1934) per crederlo; ma non è l’unico lavoro che potrebbe entrare nel repertorio sinfonico -, lodato senza mezzi termini per la sua finezza di concertatore da Maurice Ravel in occasione della prima di L’enfant et les sortilèges (1925, Montecarlo: “Un direttore italiano straordinario mi ha regalato una delle più grandi gioie della mia carriera”), che suscitò veri e propri fanatismi nel pubblico di qua e di là dell’Oceano, è rimasto nel limbo dei maestri venerati e sporadicamente citati più che conosciuti e studiati? Eppure perfino l’incontentabile Sergiu Celibidache, astioso e critico nei confronti di ogni collega vivente o defunto, non usò perifrasi: “La concezione del suono di Victor de Sabata è rimasta insuperata. Si può accostare soltanto a quella espressa da Arturo Benedetti Michelangeli al pianoforte. Per non parlare delle altre qualità: la ricchezza paralizzante del far musica, l’intelligenza di tecnico e pensatore sopraffino”. Da giovane intervistatore mi rimase in mente l’espressione “ricchezza paralizzante del far musica” (“Celi” conosceva benissimo l’italiano: non usava vocaboli a caso). La locuzione riassumeva nell’aggettivo la sensazione che molti della nostra generazione, sedotti dall’esotismo di quel nome di battesimo e dal senario formato con la particella nobiliare che dava l’idea d’un personaggio da romanzo esotico, avevano avuto sentendo i (pochi) dischi. Certo, a rileggere le testimonianze ragionate di chi ebbe la fortuna di ascoltarlo dal vivo, viene da pensare che l’affermazione di Gianandrea Gavazzeni (“di de Sabata può parlare solo chi l’ha ascoltato”, fu il preambolo al suo intervento nell’incontro organizzato dalla Scala nel 1992, centenario della nascita) fosse categorica con fondamento. Eppure in stagioni di registrazioni audio rade e ancora timbricamente sommarie, in parte ancora parcellizzate nelle voltate dei 78 giri, i bagliori che scaturivano dai microsolchi di Tosca e Messa di Requiem, poi da Quarta di Brahms e Morte e trasfigurazione di Strauss (a cui conviene, non a caso, riconoscere la titolazione italiana) o dal demonico Requiem di Mozart diretto a Roma nel 1941 (di cui abbiamo anche qualche fotogramma video, da cinegiornale) furono sufficienti per edificare una religione desabatiana postuma.
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Come non perdonare la cautela di Toscanini? Quel Verdi così appassionato, irregolare, magnificamente ricreato nota per nota – apparentemente di minore importanza musicale ma “teatralmente” generatrici come nella preparazione all’entrata del Messaggero – incurante, pare, del disegno generale non poteva convincerlo. Singolare destino per un iconoclasta della cattiva “tradizione esecutiva” come Toscanini: non riconoscere subito che quel ritorno alle “libertà” contro cui aveva battagliato (e per il quale era stato lui stesso contestato nei primi anni scaligeri) non era frutto di pigrizia, di cattiva lettura del testo e di incapacità di tenere a bada le voci ma di un’altra “rivoluzione”: una sorta di seconda stagione di romanticismo fiammeggiante che impiegava gli (stessi) strumenti toscaniniani – chiarezza di lettura, precisione strumentale, partitura in testa e sul leggio come testo da rispettare e salvaguardare – ma li orientava a un atto esecutivo non ideale, eticamente educativo e un po’ dimostrativo, ma impudicamente teatrale, tumultuoso.
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Novecentesco per attenzione al dettaglio e acribia nella concertazione (sono leggenda certi ripassi in prova e in sala di registrazione: del resto anche a proposito di Tosca, e nonostante l’incisione seguisse di pochi mesi le recite scaligere, le ripetizioni furono infinite), de Sabata fu moderno per gusto teatrale – nei limiti stilistico-temporali Traviata-Rosenkavalier – che aveva individuato nel Puccini che Toscanini amava meno – pur avendolo onorato con prime esecuzioni assolute – il nuovo secolo di teatro musicale. Ottocentesco e anti-toscaniano per visionaria “irritualità ricreativa” del testo: “non l’interprete come creatore, o ricreatore, ma l’interprete come ‘proprietario’” riepilogò Gavazzeni. L’interprete che “interpreta”: cercando nel testo con la storia e i processi compositivi d’autore e che individua la traccia esecutiva anche eccessiva ma utile (necessaria, pare) a esporli e farli rivivere con la massima evidenza. Non “criticamente” o “stilisticamente” ma d’impeto: quasi a sperimentare lo slancio primigenio da cui il capolavoro aveva preso anima e vita. Le scelte di de Sabata sorprendenti e a volta un po’ contradditorie, sembra(ro)no frutto unico dell’effetto del “delirio, raptus, incantesimo e magia” comunicato all’orchestra e della capacità di dare materia espressiva sonora all’”arcata delle lunghe braccia, che diventerà elemento dell’operazione direttoriale, dell’arcata stessa interpretativa” (ancora Gavazzeni). Scelte legate all’estro dionisiaco, quasi improvvisat(iv)o? Al contrario: sono l’esito d’una concertazione affilatissima, di un’analisi del testo-partitura che si traduce in sensibilità speciale per le sfumature e lo “spazio acustico” – Carlo Maria Giulini suonò più volte per lui in orchestra ammirandone soprattutto “il colore e la dinamica” – e da cui derivano sconcertanti e rivelatrici prospettive cromatiche e una trama di proporzioni timbrico-sonore, nelle emersioni solistiche, nelle sezioni contrappuntistiche o in quelle a più linee cantabili sovrapposte (come i concertati d’opera o certi episodi sinfonico-imitativi: nelle variazioni dell’ “Eroica” e della Quarta di Brahms) che anche le sommarie registrazioni consentono di apprezzare.
Partiture sott’occhio, si rivelano opzioni non casuali né estemporanee ma frutto di una regia interpretativa che altera le prescrizioni dinamiche o agogiche – gesto sulla cui liceità si dovrebbe scrivere una chiosa a parte: la storia dell’interpretazione è spesso stata scritta dagli antifilologi – in corrispondenza di una cerniera armonica, formale o semplicemente melica del discorso musicale. In questo senso de Sabata appartiene alla più pura e nobilissima tradizione degli Arthur Nikitsch e Hans von Bülow, di Willem Mengelberg o dei meno noti al grande pubblico (ma influentissimi in ambito post-brahmsiano) Fritz Steinbach e Max Fiedler sul ramo genealogico che conduce anche a Wilhelm Furtwängler: direttori-interpreti che davano “forma sonora” al proprio racconto. Le loro esecuzioni possono essere graficamente rappresentate con diagrammi poiché individuano perni di logica narrativa negli snodi modulanti, nei cambi di disegni ritmici, nelle “cadenze” e mutazioni di quadratura discorsiva, nei passaggi fra una sezione sonatistica e l’altra. (…)
Angelo Foletto
Il profilo critico completo di Victor de Sabata è pubblicato sul numero 222 di “Classic Voice” che contiene pure le sue registrazioni con la New York Philharmonic (Franck e Wagner)