Il mio Chénier è come un film

Mario Martone racconta la sua messa in scena dell'opera che inaugura la stagione della Scala

Terrore e miseria dei giacobini, in musica: questo è Andrea Chénier, che il prossimo 7 dicembre sarà diretto da Riccardo Chailly alla Scala con la messa in scena di Mario Martone (nella foto con la scenografa Margherita Palli, ndr) alla sua prima inaugurazione di stagione a Milano. Il regista napoletano non è andato in ordine cronologico con Giordano. Prima del giovanile Chénier c’è stata La cena delle beffe, penultima opera del compositore pugliese, uno degli spettacoli più sbalorditivi degli ultimi anni: tutto in stile Padrino, con un building newyorkese di quasi venti metri di altezza ideato dalla scenografa Margherita Palli, ancora al lavoro con Martone per questa prima.
Stavolta non ci saranno spostamenti spaziotemporali. “È l’opera che non lo permette – spiega il regista -, si forzerebbe troppo il libretto. Nell’Andrea Chénier la rivoluzione francese non è un semplice sfondo da cui si possa prescindere: l’azione scenica e i personaggi riflettono come prismi il contesto storico che li circonda”. Quindi due impostazioni diverse per due “verismi” in fondo completamente diversi: da una parte La cena delle beffe, del 1924, opera sempre sul filo dell’esasperazione sia teatrale sia musicale, dall’altra Andrea Chénier, del 1896, che nonostante le esplosioni orchestrali mantiene un’atmosfera quasi romantica (nelle foto immagini dalle prove dello spettacolo; in basso i protagonisti Anna Netrebko e Yusif Eyvazov, ndr).
“Ho avuto subito la sensazione che la differenza tra le due opere fosse enorme, e non soltanto per la distanza temporale. Del resto potrei dire lo stesso anche facendo un confronto tra Chénier e Cavalleria rusticana o Pagliacci”.
A quale altro autore avvicinerebbe il Giordano di Andrea Chénier?
“Forse a Puccini, mi pare abbia un’ampiezza di respiro che va al di là di quell’idea di verismo che abbiamo di solito. Certo in Chénier il verismo c’è, però noto una complessità che non si trova in altri titoli di quella fase musicale. Penso a come vengono articolati i vari quadri dell’opera: non solo perché tutte le situazioni sono ancorate a fatti storicamente precisi, ma anche per l’accuratezza dei dettagli, per la capacità di Giordano di orchestrarli e tenerli insieme”.
Proprio Giordano, in un’intervista alla “Stampa” del 1905, parla di questi stessi dettagli per definire il verismo. E subito dopo fa gli esempi di Carmen e Violetta, sorprendendo forse uno spettatore di oggi.
“Invece non mi sembra affatto sbagliato: sono personaggi di una tale vividezza! È probabile che non stesse pensando al verismo come corrente musicale, ma più al legame con la narrativa. Quello che conta è il rapporto con la realtà: sono opere in cui non si tenta più di mettere in scena una favola, come era avvenuto fino a quel momento. Anche se tutti sappiamo che il realismo più profondo e spietato lo dobbiamo a Mozart e Da Ponte: nessuno è mai più arrivato a quel livello di dettaglio, di scavo, pur trattandosi di un’altra epoca”.
Anche per Giordano e Illica conta soprattutto il rapporto con la realtà?
“È la tensione al vero che li ha animati per Andrea Chénier. E infatti ne è uscita un’architettura implacabile, rispetto alla quale è difficile effettuare dei ribaltamenti (…)”. (La lunga intervista a Mario Martone continua nel numero 222 di “Classic Voice”)
Mattia Palma

 

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