Pierre Boulez è, per la totalità del suo cosmo intellettuale, il protagonista del secondo Novecento musicale europeo. Il compositore, il saggista e il direttore d’orchestra – quest’ultimo testimoniato dal cofanetto Dg appena pubblicato Pierre Boulez – 20th century – esprimono un’area culturale costituita di convergenze multiple e interagenti. Le simultanee esperienze compositive e saggistiche sono anche le preliminari premesse di uno stile esecutivo. Nei folgoranti esordi, ascendenze parigine e debussyane s’incontrano con la Seconda Scuola di Vienna: le due Cantate, l’inaccessibile Livre pour quatuor e l’ermetica Seconda Sonata del 1946-1948 sono già la lucida prefigurazione della “serialità organizzata”, ove si intravvedono le basi conoscitive del futuro direttore d’orchestra. Vorrei immaginare il giovane Boulez, pianista roccioso, nella fantasmatica anticipazione del Pollini accidentato della Seconda Sonata. Vari aspetti della personalità si esprimono per impressionanti identificazioni. L’astrazione geometrica delle prime Strutture per due pianoforti preannuncia il radicale rifiuto esecutivo della tradizione tardo-romantica secondo una “nuova oggettività” radicalmente aggiornata in senso eversivo.
Almeno per un ventennio, Boulez opera con intransigenza su una materia sonora scarnificata e autosufficiente, con una passione orchestrale che non è emozionata ma percorsa da una implacabile energia. Nel periodo in cui inizia ufficialmente la carriera direttoriale, aldilà dei laboratori sull’avanguardia, ribadisce il rigore strutturale: anche se allora rifletteva sull’“alea controllata” come risposta a Cage, a ben vedere ben poco è mutato nell’ordine compositivo: l’alea non cancella le simmetrie, ma codifica paradossalmente esercizi mentali anche nella ideazione di strutture mobili. Anche in Pli selon pli, del 1960, l’incontro fra il compositore e il direttore continua ad essere determinante. È evidente la correlazione fra Tombeau, la pietra tombale che chiude il ciclo, e lo studio sui registri orchestrali e sulle pianificazioni dinamiche. Non è improprio ritenere che il direttore nasca dal compositore. Di qui discendono anche le originalità delle programmazioni, i rapporti che Boulez quasi sempre istituisce tra Novecento storico e neoavanguardia. La cancellazione della storia, dichiarata dall’autore nella giovinezza, non riguarda certo il Novecento, ripensato in funzione progressiva. La forza intellettuale delle scelte concertistiche, l’ostinazione con cui condanna la ripetitività dei programmi hanno fatto scuola, dai capisaldi degli albori del Novecento a Boulez stesso, a Ligeti, Donatoni, Petrassi, Birtwistle e così via. Tutte le partiture di Bartók (con la rivalutazione fondamentale dell’op.12) sono di una formidabile densità, anche perché esaltano il valore strutturale del folklore senza slabbrature rapsodiche. Altri punti fermi: la Sagra della Primavera, Ameriques di Varése, l’op.31 di Schoenberg o l’op.6 di Berg.
“Le sue esecuzioni brillavano, sfavillavano come metallo cromato: ingranaggi del meccanismo esecutivo scorrevano ininterrottamente, incastrandosi l’uno nell’altro e il loro girare meccanico lasciava affiorare come per incanto la presenza di una inevitabile necessità”. Queste parole di Adorno riguardano Toscanini, ma si potrebbero attribuire anche alla tecnica direttoriale di Boulez. D’altronde Toscanini è l’unico direttore con cui il maestro francese (che non ama Furtwängler) presenta qualche analogia. Naturalmente, considerata la distanza cronologica, si notano alcune diversità: la concezione fortemente polifonica, cresciuta all’interno della Nuova musica, la logica compositiva come premessa ai criteri esecutivi, gli interessi culturali radicati nel simbolismo con le riflessioni su Mallarmé che allargano il mondo dell’interprete. Penso a Debussy e a Webern (gli autori più amati del Novecento) nella esplorazione del vocabolario timbrico, accanto alle perentorie, e caratteristiche, iperboli ritmiche. L’indagine della fantasmagoria coloristica di Berlioz è concepita come vivisezione di timbri puri, pre-novecenteschi. Certo il suo Webern guarda a Mondrian piuttosto che a Klee, diversamente dalle affermazioni del critico Boulez. Debussy è più strutturale che melodico, liberato dalla sensiblerie parigina: nessun retroterra lirico (in una parola l’anti-Prêtre). Ravel sfugge ai tentacoli del delirio o alle caratterizzazioni iberiche. Spesso musiche cameristiche viennesi, per esempio la Suite op. 29 di Schoenberg, suonano come la ramificata polifonia di una pagina di Boulez (penso al maturo Dérive 2).
Forte l’interesse per il teatro di regia nei percorsi drammatici, dal Pelléas al Wozzeck, dal Parsifal al Ring. Ho assistito a Bayreuth nel 1966 al Parsifal per la regia di Wieland Wagner, e un decennio dopo al Ring per la regia di Patrice Chéreau. In entrambi i casi colpiva la corrispondenza tra musica e spettacolo: il segno asettico, senza orpelli, la catafratta idea mitica corrispondevano nel Parsifal alla “vetrificata” astrazione di Boulez, ad una scelta metafisica senza palpiti e illusorie pacificazioni. Nella ripresa salisburghese di un trentennio successivo avrebbe però ammorbidito e resa più trasparente la dizione sinfonica. Decisamente rivoluzionaria la versione dell’Anello del Nibelungo: Chéreau ha contribuito a potenziare la visione di Boulez sotto il profilo della drammaturgia psicologica (credo che il regista francese, pur in una versione semi-attualizzata, abbia appreso qualcosa da Strehler per la recitazione). Fondamentalmente il nostro direttore riabilita, negli stessi anni delle estenuate letture liberty di Karajan, una concezione epico-eroica, non retrospettiva ma anti-romantica e aperta all’avanguardia storica del Novecento. Negli abissi demoniaci dell’incontro Alberico-Hagen nel Crepuscolo, il maestro coglie le profezie dell’espressionismo e della voce agghiacciante del Pelleas und Melisande di Schoenberg. Naturalmente la Settima Sinfonia di Mahler è sganciata dalle seduzioni Jugendstil come premonizione della catastrofe del nuovo secolo. Bruckner è uno studio radicale, ancora novecentesco, sulla materia sonora di una terrestre compattezza: un Bruckner che non dialoga con le stelle. In sessanta anni di attività direttoriale Boulez si è imposto per la ferma coerenza delle opzioni interpretative, ma con la maturità la determinazione razionale ha acquistato un respiro più apertamente comunicativo. D’altra parte una mutazione, rispetto alle opere giovanili, è avvenuta anche nel tardo Sur incises, ove l’autore si concilia con la tradizione nella lussureggiante invenzione strumentale.
Come si è detto, la simbiosi tra scrittura, composizione e direzione è evidente. Certo le sue opinioni su Ravel o Schoenberg, su Bartók o lo stesso Berlioz, talvolta si diversificano dalla resa esecutiva. E tuttavia il metodo critico è quello dell’interprete per la luminosa chiarezza della lingua, vicina alla cultura letteraria e scientifica francese. Rari gli interventi astrattamente analitici, e comunque finalizzati alla chiarificazione dei testi ed estranei ai principi burocratici e asettici della nuova filologia. La personalità una e trina di Pierre Boulez.
Mario Messinis
Jan72016
In memoria di Pierre Boulez
Il ritratto che Mario Messinis scrisse per i 90 anni del compositore