“Sarà la versione in quattro atti, quella ch’è Verdi approntò per le rappresentazioni alla Scala nel marzo 1884”. Non ha dubbi Daniele Gatti sulla stesura di Don Carlo scelto per il suo primo 7 dicembre alla Scala. Allo stesso modo, sa benissimo, anche se di ciò non parla, che questo Verdi inaugurale è un passo cruciale del suo cammino di interprete, reduce dalla consacrazione wagneriana con Parsifal a Bayreuth e da quella francese con l’Orchestre de Paris di cui è stato nominato direttore musicale. Dopo Lohengrin (2007) e Wozzeck (2008), molto apprezzati, per qualità artistico-esecutive e seguito di pubblico, oltre che decisive per rafforzare il carisma sul podio non agevole dell’orchestra scaligera, in molti lo vedrebbero bene come direttore musicale alla Scala. Il ruolo che per ovvie ragioni e con onestà, Daniel Barenboim non ha accettato, è vacante da troppo. Le ambizioni della Scala, la sua stessa struttura organizzativa, lo esigono: sia per garantire un punto di riferimento stabile per l’orchestra, sia perché occorre un musicista in grado di agire da collante umano e pratico tra realistiche temerarietà progettuali ed efficienza artistico-operativa. Oltre a tutto, avendo rinunciato a un teatro che l’adorava (caso unico, in Italia), come Bologna, Gatti ha anche la disponibilità giusta. Quanto a testa e maturità, ce ne vuole molta per affrontare senza complessi d’inferiorità l’opera più problematica di Verdi. Cominciando col decidere quale delle molteplici versioni di Don Carlo (francese in 5 atti, con o senza ballabili, con o senza i numeri tagliati, con la I o II versione del duetto Filippo/Posa, in italiano in quattro o cinque atti, e via dicendo) proporre al pubblico. Con tanti testi di riferimento, qualcuno s’è chiesto come mai Gatti abbia scelto la versione in fondo meno ampia e ricca.
“La ragione c’è, è precisa. Volevo che la vicenda fosse incentrata sulla figura di Filippo II. E non c’è dubbio che nella concisione della versione in quattro atti l’aspetto umano e politico acquista maggiore rilievo: consegue una centralità indiscutibile”.
Ma si perde il grande quadro di Fontainebleau…
“Quell’ampia scena, bellissima, è una complicazione drammaturgica e musicale. Proponendola è inevitabile che il baricentro narrativo e sentimentale venga spostato: Carlo, la sua storia privata, le sue fragilità emotive e fisiche, il suo amore – anzi il mancato amore – per Elisabetta, diventano dominanti”.
Ma quel “sogno strano” è una componente vitale, alla luce di un progetto innovativo, in cui si sperimenta (quasi) la capacità di tenere narrativamente insieme numerose dinamiche sentimentali, più storie e affetti…
“D’accordo sulla bellezza quasi velleitaria di una partitura che riesce a ‘raccontare’ itinerari personali così diversi, ma a me sembra che la presenza ‘eccessiva’ del mondo di Carlo – peraltro non sminuito nell’ultima versione – porti a riconsiderare certe fasi della vicenda. Voglio dire che eseguendo il Prologo si rischia – e Verdi ne fu perfettamente consapevole – di far pesare fin troppo la componente ‘di gelosia’ sulle scelte personali e politiche del padre-re Filippo. Mentre nella mia idea di Don Carlo non vorrei essere ‘distratto’ dagli elementi portanti: in Verdi ancor più che in Schiller”.
La prima, di certo è sarà quella “politica”.
“Certo, una dinamica narrativa essenziale, la più ‘spettacolare’ se vogliamo, riguarda il terribile rapporto Stato-Chiesa che il confronto Filippo/Grande Inquisitore riassume in modo perfetto”.
Il potere di Filippo ha molti nemici: quelli esterni nelle Fiandre, gli interni nell’Inquisizione; poi ci sono quelli più personali…
“È una componente delicata, espressa con toni solo in apparenza meno forti. Riguarda la percezione e descrizione della fase di crisi intima di Filippo. L’uomo avverte i segni dell’età, è turbato nei rapporti con una moglie molto più giovane. Lui ama Elisabetta, che ha ricevuta per così dire in dono: vorrebbe meritarsi quell’amore, ma lei non glielo accorda (‘Ella giammai m’amò’)”.
Rimane poi, forte, la sostanza di un sovrano che deve governare.
“È la terza anima di Filippo: la rappresentazione del senso del dovere, del capo di stato – prima che padre – che ‘deve’ cercare e la persona di cui fidarsi. Il marchese di Posa è l’uomo che può salvarlo dal destino (e dalla fama) di tiranno e togliergli in parte il peso della profonda solitudine che lo opprime”.
La varietà musicale e drammatica dell’opera deriva dai diversi piani emotivi. C’è quasi troppa musica…
“Non c’è numero di Don Carlo, compresi quelli tagliati prima dell’andata in scena a Parigi, che non conosca e non ami. Li eseguirei tutti, ma solo nel racconto del 1884 i tre ‘drammi’ di Filippo sono così netti e riconoscibili. Della versione in quattro atti mi piace la rapidità, la capacità di entrare subito nel cuore dell’azione, col dramma che è già in una fase carica inarrestabile, senza possibili ripensamenti quasi”.
Ma non è la prima volta che lo dirige.
“È la prima Italia. Nel 1986 lo debuttai a Chicago nello spettacolo d’inaugurazione del nuovo teatro; quindi due anni a Tokyo, col Comunale di Bologna; spettacolo di Yannis Kokkos”.
Come si arriva a Don Carlo? Come ci si sente pronti?
“Ma, non saprei: come si arriva a Verdi e a qualsiasi altro autore. Quel ch’è certo che in questa mia fase di vita musicale, Don Carlo e Falstaff sono le due opere necessarie di Verdi”.
Forse perché, su piano espressivi diversi, ci sono due protagonisti che si assomigliano nella ricerca d’amore?
“Gioca senz’altro la comune componente spirituale: in entrambe le opere si ragiona sulle disillusioni amorose legate (anche) all’età. Sulla capacità, o incapacità, di fare i conti con la propria storia sentimentale. Sembrerà un pensiero banale, ma viene un momento della vita in cui ci si sente più disponibili, e attratti, da tematiche del genere”.
Ma ci sarà anche qualcos’altro, più musicale.
“Mi affascina il loro colore crepuscolare, la tinta complessiva: una radiografia timbrica dei rispettivi protagonisti. In generale mi sento più vicino al Verdi cupo, al tono vocale incarna
to dalle voci gravi. Oggi mi attrae meno Otello e non sento affinità con Aida, mentre amo Simon Boccanegra e, soprattutto, Rigoletto”.
L’intonazione fonda di Don Carlo, “decadentista” direbbe Gianandrea Gavazzeni, è dominante.
“La sua tinta – timbro e armonia, strumentazione e melodia – non ha paragoni. E insieme il carattere di opera ibrida, discontinua ma vertiginosa. Una riflessione legata alla vocalità mi ha sempre attratto: la linea vocale è pensata per il francese, possiede nuances che nella traduzione/versione ritmica italiana un po’ si perdono o suonano un po’ forzate (nell’originale avevano una metricità naturale). Comunque la ‘nuova’ melodia fu accettata dall’autore, e Verdi difficilmente si sbagliava. A noi interpreti quindi si chiede di rendere naturale in italiano il percorso melodico originario. Si deve lavorare in modo metodico sul fraseggio, affrontando uno per uno i casi più delicati, che rimangono uno dei motivi di fascino unico della partitura. Le piccole asimmetrie tra accenti e canto, tra linee melodiche e ‘appoggi’ musicali vanno rivisti alla luce della fraseologia italiana”.
E della forte incisività dei versi.
“È incredibile: seppure in traduzione ritmica non bella, non sempre logica grammaticalmente né intellegibile, il dramma si coglie immediato. E gli echi di Schiller: dedicherò le prime prove con i cantanti a rileggere insieme libretto e tragedia schilleriana”.
Poi, in orchestra c’è sempre la tinta giusta…
“Una bella sfida: trovare il colore ‘di’ ogni situazione ma anche crearne uno continuo che attraversi l’impegnativa fattura narrativa dell’opera tra costruzione, epicentro, catastrofe, chiusura”.
Quale’è la maggiore difficoltà per il direttore?
“Progettarlo dal punto di vista interpretativo nella sua interezza. Anche se come tutte le opere verdiane della maturità l’atto più importante – e musicalmente riuscito – è il terzo: dal soliloquio di Filippo, al quartetto, all’aria di Eboli, fino al grandioso concertato, in Don Carlo conta il flusso continuo: non c’è un attimo di tregua nella musica. Né nell’anima dei protagonisti”.
“Concertato”, ha detto… si cioè riferisce a una sezione non presente nell’edizione del 1884, ndr
“Naturalmente. Il ‘compianto’ di Filippo è una della pagine più emozionati dell’opera, infatti Verdi la rifuse nel Lacrimosa del Requiem. Per un direttore è un passo di suggestione unica: musica troppo bella per rinunciarci. Vale però anche una motivazione poetica e drammatica: avendo scelto l’edizione 1884 perché concentrata e funzionale a decifrare la figura di Filippo, era doveroso recuperare il ‘Chi rende a me quest’uomo’: momento capitale per capire a fondo animo e tormenti del protagonista. Solo in questa scena c’è la raffigurazione dell’uomo autenticamente turbato e commosso (‘Sì, io l’amai’). E proprio attraverso il lievitare del concertato che ci viene, più nettamente, ribadita la disperazione di un regnante assoluto: la storia l’ha tramandato potente e inflessibile, qui lo vediamo vittima dei suoi stessi disegni, oltre che debole ostaggio dell’Inquisizione (‘ho distrutto l’aiuto che Dio m’avea donato’). In un attimo Filippo capisce di avere perduto definitivamente il figlio, non avendo avuto la forza di impedire l’uccisione di Posa, che era l’unico legame affettivo reciproco, seppure non di sangue. Piange la perdita dell’amico, e insieme celebra in modo ancor più straziante la sua solitudine”.
Sarà l’unica deroga rispetto all’edizione 1884?
“Come nelle precedenti produzioni, ho inserito nel secondo atto la scena dello scambio dei mantelli tra Elisabetta e Eboli III, 1 – prima del Ballo della Regina- nell’edizione Parigi 1847 e Napoli 1872, quella con le aggiunta tradotte dal Ghislanzoni, nda.. Per due ragioni, a parte il delizioso tocco esotico. Teatralmente è necessaria per capire l’equivoco in cui cadrà Don Carlo subito dopo nei giardini della regina e per richiamare, con chiarezza, la passione di Eboli: ‘per brev’ora io sono regina… io vò d’amor Carlo il prence inebbriar’. Musicalmente funge da cerniera emotiva e timbrica con la Canzone del velo”.
A proposito di cerniera emotiva, il finale come sarà?
“Quello scritto: fulmineo e inesorabile. Anche se per un po’ ho pensato che l’inquietante ripresa del coro interno dei frati sarebbe stata suggestiva, e simmetricamente più che giustificata”.
Non ha mai pensato di proporre la versione francese? Alla Scala non è mai stata eseguita.
“L’ho considerato a lungo; mi sarebbe piaciuto. Ma alla fine ho pensato che, anche senza mettere in conto la lunghezza, un Don Carlos integrale e in francese è più un’operazione da festival che un titolo da inaugurazione di stagione”.
Vogliamo accennare allo spettacolo, allora?
“Il mese scorso, a Parigi, ho visto Tartufe di Molière con la regia di Stéphane Braunschweig. Bellissimo. Sono convinto che sia l’artista giusto per il Don Carlo che ho in mente”.
In che senso? Come sarà il vostro Don Carlo?
“Per quanto riguarda le scelte definitiva, lo spettacolo si formerà gradualmente, durante le prove, però l’impostazione è chiara. In palcoscenico si lavorerà sui protagonisti e sulla dinamica “fra” i personaggi piuttosto che sulla coreografia o sul decorativismo”.
Ci dobbiamo quindi attendere un Don Carlo visivamente radicale, stilizzato?
“Mi piace molto l’idea di un Verdi con scenografia minimalista – nella prima parte del terzo atto ci sarà solo una sedia, un lungo corridoio, un paio di porte laterali – quasi astratta Braunschweig firmerà regia e scene, nda. L’ambientazione è de-storicizzata, cioè non spostata in un periodo piuttosto che un altro, come appare dai bozzetti e dal modellino; i costumi saranno liberamente ispirati all’epoca: avrà molta forza la qualità dell’illuminazione e della recitazione che immaginerei shakespeariana”.
La componente politica di Don Carlo ha però anche possibili agganci con altre epoche e realtà.
“Non credo all’eloquenza degli spostamenti cronologici né al recupero di spettacolarità cinematografiche o esornative, sebbene Don Carlo riman
ga inscritto nel genere grand-opéra. Anche l’eccessivo simbolismo, col teatro di Verdi c’entra poco. I simboli – a leggerli – ci sono già nella partitura: in palcoscenico deve risaltare il lavoro sugli interpreti, le espressioni del viso. Per dare rilievo a questa musica occorre un’interpretazione scenica il più possibile essenziale e drammaticamente funzionale”.
Angelo Foletto