Con 15 titoli d’opera in cartellone, la prossima stagione della Scala (2016-2017) sarà una delle più lunghe e ricche degli ultimi anni. Come quella di Expo, ma senza più recite ad agosto. Il passato ha insegnato a collocare le produzioni operistiche nei mesi giusti, da settembre a luglio. Ma non a mettere il freno a mano: il sovrintendente Pereira ha ragione nel ricordare, a chi puntava alla riduzione (un paio di esponenti del consiglio di amministrazione), che orchestra e coro possono e devono – per contratto – lavorare di più. Non ha senso pagarli per tenerli a riposo. E dunque si programma a tutto vapore. Senza considerare che con più titoli ci sono maggiori chance per attirare sponsor: un mestiere in cui Pereira ha dimostrato di saperci fare (la Scala è il teatro d’opera europeo con la maggiore contribuzione privata).
Detta la cornice, com’è il contenuto? Dipende dai punti di vista. Lo slogan è sempre lo stesso: “Vogliamo riportare al Piermarini la grande tradizione italiana”, dicono in coro sovrintendente e direttore musicale designato. E fanno i conti: 8 titoli, più della metà, sono del nostro repertorio; 9, considerando la nuova commissione all’italiano Salvatore Sciarrino. Ribadendo cioè le differenze con la gestione precedente. Una delle conseguenze di questa scelta è però la totale sparizione del Novecento storico: ci sono Verdi (4 titoli), Donizetti, Rossini, Puccini (2); e poi Mozart (2), Wagner, Weber, Handel, Humperdinck. Ma non si è trovato spazio per nessuno dei grandi autori – e dei capolavori – del secolo passato: alla Scala, nel 2016, ci si ferma al 1904 (“prima” di Butterfly).
D’altra parte se la teoria – proclamata dal sovrintendente – è la priorità dell’interprete (“per costruire una stagione bisogna partire dalla disponibilità dell’interprete”), si fa presto a perdere di vista il buon dosaggio di autori, tradizioni, stili. E però il mix di cantanti, registi, direttori chiamato a mettere in scena questo grande repertorio convince. Almeno sulla carta. E dunque si parte il 7 dicembre con Madama Butterfly di Puccini: Chailly proporrà la prima versione dell’opera “che aveva debuttato alla Scala 112 anni fa, ma proprio qui non è stata mai ripresa”. Una versione in 2 atti, con la regia di Alvis Hermanis (autore dei brutti Due Foscari appena andati in scena) e Maria Josè Siri come protagonista. Segue il Don Carlo di Verdi, eccezionalmente in cinque atti (ma in italiano) con l’attesa direzione di Chung, un cast dell’ultima generazione di cantanti verdiani, tra cui Francesco Meli, Simone Piazzola e Crassimira Stoyanova, e la regia di Peter Stein (nella foto in alto). Poi il Falstaff di Verdi nella versione di Damiano Michieletto ambientata a Casa Verdi. Milanesissima, dunque. “Ecco il motivo per cui ho pensato di rifare un nuovo Falstaff”, si giustifica il sovrintendente. Zubin Mehta lo dirigerà “come un omaggio a Mozart, con un organico cameristico”, ricorda Pereira che aveva battezzato questo connubio quando era direttore del Festival di Salisburgo nel 2013.
Torna Wagner con I maestri cantori diretti da Daniele Gatti e la regia di Harry Kupfer, produzione dell’Opera di Zurigo, con Michael Volle nel ruolo del protagonista. Tra gli altri titoli ricordiamo la Gazza ladra di Rossini diretta da Chailly. “La presenteremo”, dice il direttore principale, “con una nuova identità registica, grazie alla presenza di Gabriele Salvatores. Il suo cinema ha un ritmo musicale, che si sposa perfettamente con le esigenze poste dalla musica di Rossini”. E poi il Don Giovanni con regia di Carsen e voce di Thomas Hampson (direttore Paavo Jarvi). E il Ratto dal Serraglio nella leggendaria produzione di Strehler, per ricordare i 60 anni del suo debutto milanese.
Insieme all’Italia, in questa stagione, brilla l’opera in tedesco, rappresentata oltre che da Wagner e Mozart dalla nuova produzione del Franco Cacciatore di Weber diretta da Chung (regia di Matthias Hartmann) e dall’Hansel e Gretel di Humperdinck con la regia di Seven-Eric Bechtolf e gli studenti dell’Accademia della Scala. Continua inoltre il progetto dedicato all’opera barocca eseguita su strumenti d’epoca, imbracciati dagli orchestrali scaligeri istruiti da Diego Fasolis, per un Tamerlano di Handel con regia di Davide Livermore e un cast che vede i due più grandi controtenori della scena attuale: Franco Fagioli e Benjun Mehta. E poi, trascorso il Nabucco diretto dal veterano Nello Santi (lo spettacolo è quello già visto, intenso, di Daniele Abbado, con l’infaticabile Leo Nucci), la nuova commissione a Salvatore Sciarrino, Ti vedo, ti sento, mi perdo, dedicata alla vita di Alessandro Stradella.
La Traviata con Anna Netrebko viene riproposta nello spettacolo di Liliana Cavani, che nei prossimi giorni farà bella mostra di sé nell’esposizione dedicata agli anni scaligeri di Muti: parliamo di 25 anni fa (quello di Cherniakov, del 2013, un neonato in confronto, è stato già rottamato?). L’età della pensione non è ancora giunta neanche per la storica – o preistorica – Bohème di Zeffirelli, riproposta con Evelino Pidò sul podio.
Nella stagione dei concerti, infine, oltre a Chailly dirigono Dohnany, Mehta, Pretre (a 92 anni), Jarvi, Haitink (con la Missa Solemnis). Tra i concerti straordinari i 2 di Riccardo Muti con la Chicago Symphony Orchestra, e l’altro di Mariss Jansons con i complessi della Radio bavarese (sui leggìi la Nona di Mahler). Un solo concerto pianistico, per il momento, quello di Maria Joao Pires.
Andrea Estero