Le Sinfonie “di” Muti

In occasione degli ottant'anni, ripercorriamo il suo percorso sinfonico. Anch'esso sotto la stella di Verdi

Un omaggio per gli ottant’anni che apre un ampio sguardo retrospettivo sulla prima arcata  di una carriera di cui oggi possiamo ammirare la continuità, sorretta da quella tensione che nella ricerca dei tanti significati racchiusi nella pagina musicale non conosce rallentamento. La visione proposta da questi novanta cd (Warner) che riuniscono le registrazioni di opere sinfoniche e corali si integra virtualmente con l’altro versante, quello delle registrazioni operistiche che Muti ha ripercorso parallelamente, animato da quella passione che lo sospingeva fin dai lontani anni fiorentini, facendo talora scelte non facili che andavano contro le tradizioni consolidate, scelte impopolari anche, scaturite sempre da un autentico rovello, dalla insistita interrogazione di un testo che, pur dietro la chiarezza dei segni, continua ad offrire enigmi. Di questa ricerca Verdi è naturalmente il terreno più stimolante nell’impegno a sfatare il luogo comune “che sia stato un mediocre orchestratore”, convinzione respinta con decisione da Muti e costantemente smentita dal modo di indagarne le testimonianze, fin dalle prove giovanili, di dare un senso ad una scrittura che si fa sempre più penetrante. “Sappiamo benissimo che Verdi faceva molta attenzione alla dinamica, se pensiamo alla partitura della Messa da Requiem che abbonda di piani e pianissimi e che darebbero, nel caso trovassimo i cantanti giusti, un Requiem completamente diverso da quello che facciamo e che io faccio”, così in una lontana conversazione a casa sua, a Ravenna, nel corso della quale si soffermò lungamente sulla testimonianza di Toscanini da lui rivissuta attraverso l’insegnamento di Votto, mentore prezioso per Muti negli anni di studio milanesi, e anch’essa “bloccata da certi stereotipi, il rigore, l’oggettivismo, la velocità e via dicendo, tratti che un’osservazione più approfondita smentisce: sono falsi miti; basti ascoltare le registrazioni di alcune Sinfonie di Brahms… quel che colpisce è che quella fluttuazione, quella libertà di fraseggio sottintende sempre la consapevolezza di un’idea formale”.

Non meno illuminante in questa monumentale compilazione risulta il “caso Cherubini”, nell’evidenza rimarcata dalla stessa arcata cronologica: l’ultimo cd, il novantesimo, con la Missa solemnis in Mi maggiore reca la data di registrazione giugno 2006, il primo con il Requiem in Re minore al novembre 1973, una simmetria significativa questo aprire e chiudere nel nome dell’autore che nella dedizione di Muti ha ritrovato una vita più luminosa; un amore per il grande fiorentino che suona come risarcimento nella consapevolezza che sia “stato ingiustamente tralasciato” e al tempo stesso della “difficoltà di trovare una chiave interpretativa” che non si arresti al fin troppo usurato cliché di “dotto e noioso neoclassicista”; in quella scrittura uscita da un artigianato ascetico – “un musicista per musicisti, come vi sono poeti per i poeti” diceva Giorgio Vigolo, altro cherubiniano d’elezione – Muti ha colto la  forza inventiva che non poteva non destare la stupefazione dei maggiori compositori della Romantik per la complessità e l’ardimentosità delle scelte: vere e proprie premonizioni. Non stupisce –  amava ricordare Muti in una lontana intervista – che Schumann dopo l’ascolto della Messa in Fa maggiore scrivesse come “talora la musica, mentre sembra risuonare dalle nuvole, ci fa tremare e rabbrividire”,  ribadendo la sua ammirazione per quella scrittura che “nella sua severa concentrazione e forza di carattere vorrei qualche volta paragonare a Dante”. Si possono ritrovare in quelle parole le ragioni che innervano più ampiamente la visione interpretativa di Muti, una classicità intesa come la forza esemplare di un passato che si rinnova nella sua più intima tensione “sentimentale”, nel senso schilleriano…
Sarebbe impossibile in questo commento scorciato al corposo omaggio discografico seguire il cammino tappa per tappa. Solo qualche considerazione dunque; muovendo da un ricordo frequente nelle conversazioni colorite con Muti, quel suo richiamo alle parole di Eduardo De Filippo, “ogni artista, anche nei momenti di maggior intensità, deve sempre lasciar libera dall’emozione una piccola parte di sé che controlli se stesso”. Controllo che si screzia di inclinazioni sensibilissime di fronte alla pagina mozartiana, quella italianità del resto amata dal Salisburghese, riflessa in quella felicità melodica che Muti è andato percorrendo nella sua lunga frequentazione col musicista, rivivendo con naturalezza la  meravigliosa complementarietà che nell’universo mozartiano regola il rapporto tra teatro e l’ordine strutturale del linguaggio, in altre parole tra musica e vita.
Un aspetto interessante offerto dalla raccolta è quello delle varie orchestre con cui Muti si è confrontato nel corso di questa lunga arcata temporale, da quella fiorentina del Maggio, gestita dal 1968 al 1980,  alla londinese Philharmonia Orchestra,  dal 1973 al 1982, quindi quella di Filadelfia, dal 1980 al 1992, quella della Scala, dal 1986 al 2005 e poi i numerosi incontri coi Wiener Philharmoniker e coi Berliner (…)  (continua nel numero 266-67 di Classic Voice, luglio-agosto 2021)

Gian Paolo Minardi

 

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