L’Italia esce dall’euro? Uno dei paesi fondatori dell’Europa minaccia l’Italexit? La Scala, la grande musica, vira in direzione opposta. E fa sentire la sua voce. L’ha detto anche Beppe Sala, il sindaco e presidente della Fondazione Lirica, alla presentazione della prossima stagione 2018-19: Milano intende puntare tutte le sue energie sui valori della cultura, prima di tutto quella artistica e musicale. E la musica, certo, non fa rima con sovranismo, confini, barriere. L’opera è uno spazio europeo: che siamo simili alla Germania e Francia più che alla Cina e all’India ce lo dice lei.
La Scala, nel suo prossimo cartellone, ne trae le conseguenze. A cominciare dalle parole con cui è stato presentato da Alexander Pereira e da Riccardo Chailly: per la prima volta da quando si sono insediati libere dalla retorica dell’italianità. Ma anche nei contenuti di un programma degno di figurare tra i migliori dei palcoscenici che contano. Certo, i Verdi e Puccini restano i perni di stagione. Prima di tutto quelli proposti dal direttore musicale: Attila – “secondo titolo della trilogia giovanile verdiana, dopo Giovanna d’Arco e prima di Macbeth”, secondo Chailly – e Manon Lescaut – che sarà presentata nella prima, originale, versione – con la regia rispettivamente di Davide Livermore e David Pountney. Senza scordare I Masnadieri che vedono approdare al Piermarini le visioni sceniche di David McVicar e la direzione di Michele Mariotti. Ma l’Italia stavolta da sola non basta. E’ parte di una geografia più ampia, otto-novecentesca: a definirla c’è un capolavoro irrinunciabile come la Kovantchina di Musorgski (Gergiev/Martone), i due Richard Strauss di Ariadne auf Naxos ed Elena Egiziaca (entrambi diretti da Welser-Möst), la prima scaligera della Città morta di Korngold, titolo “cult” del decadentismo europeo (sul podio Alan Gilbert, regia Graham Vick), e ancora Idomeneo affidato al veterano Christoph von Dohnanyi (regia di Matthias Hartmann), la ripresa del Quartett di Francesconi (La Fura dels Baus), per concludere con quel Giulio Cesare di Handel allestito da Robert Carsen – “con un cast di star mondiali”, ha chiosato Pereira, e a ragione: Mehta, Bartoli, Jaroussky, Mingardo, dirige Antonini – che non è solo la prosecuzione del progetto barocco eseguito con l’apporto di strumenti originali (come oggi è irrinunciabile da Parigi ad Amsterdam a Berlino), ma anche l’inizio di una collaborazione tra la Scala e la stessa Cecilia Bartoli, che frutterà al Piermarini allestimenti di Semele (2020) e Ariodante (2021).
Con quindici titoli e dieci nuove produzioni, la Scala è tra i teatri “a stagione” quello che produce e rinnova di più; ma è anche il più nostalgico. Continuano a girare infatti le produzioni “classiche”, come avviene per i gioielli di famiglia a Vienna o Berlino: la “Traviata della Cavani”, “La Cenerentola di Ponnelle”, “Il Rigoletto di Deflo”, “L’Elisir d’amore di Pericoli”, ravvivate da direttori eccelsi (Chung), intriganti (Dantone), a loro modo leggendari (Santi) o da nuovi talenti (Michele Gamba). Si afferma in sostanza – per un terzo della stagione – un “repertorio” sempre uguale a se stesso: il che ha una sua indiscutibile logica economica. I concerti sinfonici confermano l’impronta europea: con gli emozionanti percorsi tra Mahler e Bruckner proposti dalla Filarmonica con Chailly, Dohnanyi e Mehta; la presenza della Lucerne Festival Orchestra fondata da Abbado con i migliori strumentisti del Continente, il debutto del talentuoso Lorenzo Viotti, padre italiano e medaglia d’oro al concorso per direttori di Salisburgo: il più giovane degli italiani-europei. Nei giorni più convulsi della nostra storia politica recente, La Scala batte un colpo e ci ricorda chi siamo.
Andrea Estero
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