Pianista, musicologo e didatta, il viennese Paul Badura-Skoda ha portato nel secondo Novecento e in questi primi due decenni del nuovo millennio la fiaccola di una cultura musicale mitteleuropea che rappresenta un bene inestimabile. Tuttavia, egli non è affatto un inflessibile tradizionalista: la sua vivacità di spirito e l’apertura mentale lo rendono sempre aperto a nuove scoperte. A novant’anni, compiuti lo scorso ottobre, ancora gira il mondo per concerti e masterclass, donando al mondo la sua sensibilità e la sua saggezza. Se pensiamo che è stato allievo di Edwin Fischer alla fine degli anni Quaranta, e che nella stessa epoca ha debuttato come solista con Herbert von Karajan e Wilhelm Furtwängler, ci rendiamo conto di quanta sapienza egli porti con sé.
Poiché nel numero di aprile di “Classic Voice” pubblichiamo tre Sonate di Schubert eseguite da Badura-Skoda su pianoforti d’epoca, abbiamo affrontato con lui il tema del sonatismo schubertiano, ancora oggi piuttosto trascurato in Italia nella sua globalità.
Quando è nata la sua passione per Schubert, e in che modo?
“È nata quando ero adolescente, facendo musica da camera: mi sono accostato a Schubert tramite le sue composizioni per violino e pianoforte e il Quintetto ‘La trota’. L’impressione più profonda però mi è venuta da Winterreise, che ho ascoltato per la prima volta nell’esecuzione di una cantante non famosa, ma molto espressiva. La vicenda dell’amante desolato in un paesaggio invernale mi ha scosso fortemente. Nello stesso anno ho studiato per la prima volta nella mia vita gli Impromptus di Schubert con Otto Schulhof, pianista che aveva un bellissimo tocco cantabile. Ancora oggi gli Improvvisi sono una mia pièce de résistance”.
Fino alla seconda metà del Novecento, le Sonate per pianoforte di Schubert sono state poco eseguite. Fra i pionieri, fondamentali sono stati Arthur Schnabel ed Eduard Erdmann. Ma per esempio Edwin Fischer, che è stato suo insegnante, non incise le Sonate, limitandosi a Impromptus e Moments musicaux. Perché le Sonate sono state riscoperte e valorizzate così tardi?
“Dipende da un enorme e folle pregiudizio, ovvero la convinzione che Schubert fosse un mirabile compositore di Lieder meno a proprio agio con la musica strumentale, che si trattasse di sinfonie, quartetti o sonate. Nel centenario dalla nascita di Schubert, George Bernard Shaw scrisse con grande cattiveria che la Sinfonia n. 9 ‘La Grande’ di Schubert sarebbe ‘the most exasperatingly brainless composition ever put on paper’ (‘la composizione più esasperatamente stupida mai messa su carta’). Ricordo inoltre che nei primi libri che venivano pubblicati sulle Sonate di Schubert, raramente si riconosceva l’enorme genio di Schubert e la sua originalità: si diceva ‘qui assomiglia a Weber’, ‘qua a Beethoven’ o ‘là a Haydn’.
Un altro pregiudizio consisteva nella convinzione che Schubert fosse meno conciso e più dispersivo di Beethoven: si prendeva il modello beethoveniano come paradigma, senza considerare che Schubert cercava una propria strada, che si è dimostrata persino più avanzata rispetto a quella di Beethoven. Questo pregiudizio oggi è stato sradicato, ma al tempo era dominante”.
In effetti, quando Schumann parla di himmlische Länge a proposito della Sinfonia n. 9 di Schubert, si riferisce a una “divina lunghezza” (al singolare), e non certo a “divine lungaggini”, come talvolta è stato tradotto dando luogo a equivoci. Alcuni pianisti ed editori, come Harold Bauer, addirittura tagliavano le Sonate di Schubert per eliminarne le parti a loro avviso superflue, che non corrispondevano all’idea più compatta di sonata beethoveniana. Schubert era visto insomma come un Beethoven minore, privo della capacità di sintesi beethoveniana.
“Erano menzogne. Basti pensare che molte sonate di Schubert sono più corte di quelle di Mozart. Ne è un esempio la bellissima Sonata in La maggiore D 664, un modello di economia formale. Inoltre, come lei evidenzia, la definizione schumanniana di “divina lunghezza” è ammirativa. Molti grandi compositori hanno adorato Schubert anche quando…” (continua)
Luca Ciammarughi
L’intervista a Paul Badura-Skoda è pubblicata nel numero 227 di “Classic Voice” (aprile 2018)