Cieli! Numi! Stelle!, e continuate pure ad libitum con ogni altra possibile espressione di sorpresa melodrammatica. È incredibile, ma è vero: la prossima stagione del teatro dell’Opera di Roma è bella. Non si potrà più dire come si è sempre fatto e avendo quasi sempre ragione, che è il peggior teatro lirico del mondo, e in ogni caso quello con il peggior rapporto costi-risultati. Chapeau a Carlo Fuortes: risolte con l’unico sistema possibile, cioè il pugno di ferro, almeno alcune delle assurdità sindacali più insensate, risanati, pare, i conti, adesso regala alla città un cartellone moderno e internazionale, come se un’istituzione che era trent’anni in ritardo rispetto al resto del mondo scoprisse di colpo che siamo nel 2015. Benvenuti nella realtà.
Certo, si può dire che, per un teatro che costa al contribuente come la Scala, forse dieci titoli sono pochi (però ce ne sono altri tre a Caracalla) e due direttori artistici sono troppi (ma qualche bizzarria bisogna pur che resti, altrimenti non sarebbe più l’Opera di Roma). Tuttavia, niente male davvero. E perfino con una linea, quella di provare a vedere se in Italia si possano fare delle regie d’opera concorrenziali con artisti italiani, ovviamente pescati al di fuori del museo delle cere Pier’Alli-Pizzi, per non parlare di Muti e dei suoi cari. Dunque Martone per Le Bassaridi di Henze (e che inaugurazione, poi), la Dante per Cenerentola, Livermore per Il barbiere, la ripresa del magnifico Trittico di Michieletto, quello che una lungimirante nuova gestione ha subito provveduto a cancellare dal cartellone del Petruzzelli (e con lo stesso direttore, Daniele Rustioni), Muscato per Un ballo in maschera. Anche le coproduzioni-importazioni sono ottime: c’è una Traviata di Curran con Bucarest, una Linda di Chamounix di Sagi con Barcellona (e qui magari è più interessante il titolo del regista) e soprattutto due spettacoli capolavoro: il Dido and Aeneas coreografato da Sasha Waltz e il Benvenuto Cellini di Terry Gilliam, dove sarà interessante vedere le reazioni, in quella che è e resta la capitale dello Stato pontificio, di fronte a un Papa con le unghie lunghe laccate tipo Turandot. E va bene che è Clemente VII Medici, di cui i romani non hanno un buon ricordo perché è quello del sacco. Insomma, gran bel cartellone. E allora ci sta perfino la ripresa della Tosca rifatta e rifritta sui bozzetti della prima assoluta, tipo un “come eravamo” familiare riguardando i filmini Anni Settanta finalmente riversati in dvd.
Resta da capire come la prenderà il pubblico dell’Opera. Il generone delle prime, una fauna umana che sembra sempre uscita da un Fellini dei più grotteschi, fu capace anni fa di accogliere con una surreale gazzarra con strilli di “ridateci Verdi!” un’Aida di Bob Wilson. Capirai che eversore. Uno spettacolo che nel mondo civilizzato è pura routine, perfettamente normale per chiunque vada a teatro, anzi perfino banale, prevedibile, manierista come appunto è oggi Wilson, che infatti suscita reazioni tipo “ancora ‘sta roba?”, venne accolto come chissà quale “provocazione”. All’epoca, l’umile tenutario di questa rubrichetta scrisse (altrove) che, se questa era l’Opera di Roma, allora tanto valeva farci un parcheggio. Del resto, tempo dopo uno stupendo Tannhäuser di Carsen in coproduzione con Parigi e Barcellona fu cancellato per affidare una “nuova produzione” autarchica a Filippo Crivelli. Questa è (o era, speriamo) l’Opera di Roma. Però, davanti a questo 2016, non mi trasformerei più in Salvini per invocare la ruspa. Il parcheggio può attendere. (nella foto il Teatro Costanzi nel 1940)
Alberto Mattioli
Jul102015
Nuove stagioni: l’Opera di Roma
Il parcheggio può attendere?