“Evvi una Santa Cecilia che a un coro in cielo d’angeli abbagliati sta a udire il suono et è data in preda alla armonia, vedendosi nella sua testa quella astrazzione che si vede nelle teste di coloro che sono in estasi; oltra che sono sparsi per terra instrumenti musici che non dipinti ma vivi e veri si conoscono”. Così il Vasari nella Vita di Raffaello d’Urbino, descrivendo quella pala d’altare che sulla sua scorta si continua a chiamare L’estasi di Santa Cecilia. Senza precedenti per originalità il gruppo di strumenti musicali per la cui esecuzione Raffaello si avvalse dell’allievo Giovanni da Udine, specialista in nature morte. Realizzato a Roma, il dipinto fu portato a Bologna per essere collocato nella chiesa di San Giovanni in Monte. Considerato a lungo come “una delle due migliori pitture di Bologna, o forse del mondo” (Charles Burney), non sfuggì alle ruberie napoleoniche ed emigrò al Louvre; nel 1815 fu restituito allo Stato pontificio ed oggi si conserva nella Pinacoteca nazionale di Bologna, dal cui catalogo si ricavano i seguenti dati anagrafici: olio su tavola trasportato su tela, 236×149 cm., 1518. L’osservazione non è nuova: il patronato sulla musica della santa romana del III secolo deriva da un equivoco. La prima antifona del suo ufficio (22 novembre) recita infatti Cantantibus organis, Caecilia Domino decantabat. “Al suono degli strumenti la vergine martire inneggiava al Signore”; cioè non ascoltava gli organa, strumenti musicali in generale. Oppure, se vogliamo credere a un errore di lettura (candentibus organis), non si curava degli strumenti di tortura arroventati; dunque estatica e/o intrepida ma non necessariamente versata nell’arte dei suoni.
Come che sia, Raffaello rilegge la tradizionale narrativa agiografica alla luce della tripartizione di Boezio: la sua Cecilia non suona né canta, ma volge gli occhi a uno squarcio fra le nuvole dove sei angeli cantano in polifonia “a libro”. La loro musica non è instrumentalis bensì mundana, ossia prodotta dalla rotazione dei mundia, i sei corpi translunari del sistema tolemaico. Nell’ordine: Mercurio, Venere, Sole (aureolato di fiamma, regge un libro-parte) e Marte, mentre i remoti Giove e Saturno, abbigliati in colori freddi, leggono da un secondo libro. Gli strumenti terreni si presentano in vari stati di degrado. Dall’organo portativo, che Cecilia regge capovolto, si stanno staccando tre canne; ai suoi piedi la viola da gamba tenore ha il corpo fessurato e le corde spezzate. Due flauti diritti e due piccoli aerofoni meno decifrabili (cornamuto e bombarda, o magari canne di zampogna?) appaiono spezzati. Tutta una serie di percussioni (piatti, tamburelli con e senza membrana, una coppia di nàccari sfondati, un triangolo) giace in confuso disordine. Appoggiato sulla spada e reggendo in mano una lettera ripiegata, San Paolo li contempla sdegnoso, come ripensando a un passo delle sue epistole: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non avessi la carità, sono come un bronzo risonante o un cembalo tintinnante” (1.a Corinzi, 13). Un’ermeneutica cosmologica e teologica che rivela nel pittore il commensale di umanisti quali Baldassar Castiglione, Andrea Navagero, Bernardo Bibbiena, Pietro Bembo. Nel loro bagaglio culturale confluivano in bizzarro sincretismo temi cristiani e neoplatonici, culto della classicità greco-latina, scienze naturali e occultismo. Al conte Castiglione, già suo estimatore negli anni di Urbino, poi consigliere e facilitatore d’affari durante gli anni romani alla corte di due papi (1508-1520), Raffaello deve senza dubbio il programma iconografico dei grandi cicli di affreschi eseguiti in Vaticano. Qui la musica si trasfigura dalla sfera dell’empiricamente udibile, evocata nelle prime prove del giovane urbinate, all’empireo delle allusioni erudite, o magari alla febbre archeologica che in quegli anni dissotterrava la Domus Aurea di Nerone, le statue e i sarcofaghi romani, per farne modelli da emulare.
L’organologo viennese Emanuel Winternitz, profugo negli Usa per motivi razziali, firmò nel 1955 un brillante saggio apparso sulla rivista vaticana “Ecclesia”: Archeologia musicale nel Parnaso di Raffaello. Il cosiddetto sarcofago Mattei del III secolo d.C., un tempo visibile presso la basilica di San Paolo fuori le Mura e oggi al Museo di Palazzo Massimo, si rivelava una delle fonti cui l’Urbinate si era ispirato per comporre la galleria universale del genio poetico, da Omero ai contemporanei, adunato intorno ad Apollo e alle nove Muse. Ecco trovati i modelli della kithàra di Erato, della strana tromba di Calliope, nonché della cetra a 5 corde in mano a Saffo, fuori campo in basso sulla sinistra; in parte fraintesi per le imperfette cognizioni del tempo e per il degrado del marmo. La mistura di strumenti antichissimi e “moderni” (la lira da braccio suonata da Apollo, il liuto o la viella di cui s’intravede il bordo dietro a una Musa ritratta di schiena) pare una calzante metafora del doppio statuto della musica nella cultura rinascimentale.
Per i letterati che idealizzavano il mito assai poco documentato della musica ellenica, Raffaello era il primo che avesse saputo dar vita all’ideale del nuovo artista in grado di sfidare e superare l’antichità. Ma nella Roma del ferrigno Giulio II della Rovere, e poi dell’esteta Leone X Medici, si coltivava musica d’uso per i gaudi privati o instrumentum regni per le cerimonie religiose e civili. Musica moderna, come le Frottole intabulate che nel 1517 Andrea Antico stampò in xilografia con dedica a Leone X; ma anzitutto la polifonia franco-fiamminga del Liber quindecim Missarum (sempre Antico, 1516) ad uso delle cappelle Sistina e Giulia, o i mottetti raccolti nel Medici Codex del 1518. Sempre quelli i nomi di punta: Josquin, Willaert, Obrecht, Isaac, Brumel, Mouton, Festa, Pesenti… Componeva qualche mottetto e cantava madrigali “a libro” nel dopocena perfino quel Leone X che il cronista ungherese György Szerémy ricorderà quale “valde musicus”.
Carlo Vitali
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