Sono solo prime impressioni quelle che si possono trarre dall’ascolto e visione in presa diretta della Traviata che ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala, sulle quali si tornerà con più circospezione nel numero di gennaio di ‘Classic Voice’. È però già emerge con chiarezza che la linea percorsa da Daniele Gatti non è quella che porta al melodrammatico (strada seguita recentemente con modalità diverse – molto, per certi versi – da Muti e Temirkanov): il direttore milanese fa della Traviata una partitura ‘assoluta’, da ripensare da capo a fondo. E d’altra parte i suoni della Parigi di metà Ottocento, ampiamente presenti in partitura, non hanno niente della retorica del melodramma del primo Ottocento e del primo Verdi: sono da riscoprire come gesto compositivo sorprendente. Ecco la necessità di ripensarli alla luce di una ‘pronuncia’ antiretorica e rarefatta, appresa da Gatti nelle frequentazioni col repertorio viennese di fine secolo, e che qui s’irradia dai perduranti valzer a tutti gli altri momenti della partitura. Una Traviata ‘da camera’, perfetta per questo dramma verdiano d’interni, che trova il suo culmine nel sussurrato ‘Dite alla giovine’, cantato a fior di labbra da Damrau e Lucic su un tappeto di intensi assoli orchestrali (l’oboe non si era mai sentito ‘commentare’ così amaro); ma anche l’aria di Germont staccata, al contrario del resto, con un tempo sensibilmente più sostenuto del solito, aveva un tono provocatoriamente colloquiale, perfino irruente nella cabaletta.
Certo, le scelte di tempo e le dinamiche affioranti (alcuni pianissimo sono da capogiro), favoriscono lo scambio vocale, ma non il ritmo di uno spettacolo cameristico sì, ma anche agito con eccitazione fino all’ultima nota. D’altra parte nel dramma familiare e umano di Cherniakov, claustrofobico come una soap opera, tutto è vero, autentico, ‘realistico’ come voleva Verdi: non c’è spazio per le convenzioni stantie tanto care a certo pubblico della Scala (infatti una parte rumorosa del loggione ha indirizzato sonori buu all’indirizzo del regista). Perfetta l’ambientazione in una casa d’epoca, poi in una rustica casa di campagna, a rimarcare la scelta coraggiosa di Violetta, di cambiare vita, per quanto lo spettacolo sia costruito tutto sulla recitazione tra i personaggi. Violetta è una donna forte, che non crede ad Alfredo, ostenta ironia nel primo atto; prova ad affrontare una nuova vita nel secondo, ma pensa di poter accettare un passo indietro. Solo a casa di Flora scopre che le ferite non si sono riemarginate, e – letteralmente – impazzisce. Emozionante tutto il finale impostato sull’incomunicabilità tra la donna, ormai devastata da alcol e farmaci, e il resto del mondo. Ci torneremo. Per ora rileviamo che il rischio di questa verità teatrale è parsa la ridondanza, l’ostentazione, di alcuni gesti a volte fin troppo ‘chiassosi’.
Dissensi al regista, qualche buu a Gatti e al tenore Piotr Beczala (corretto, come il baritono Lucic, Germont insinuante e ruffiano). L’unica trionfatrice indiscussa della serata è Diana Damrau, che regala una Violetta forte ma fragile, alla fine perfino nevrotica, risolta innestando la sua impostazione vocale belcantistica su una personalità scenica di prim’ordine. Da sola la voce, tranne che nell”Addio del passato’, non sarebbe bastata a restituire l’accento verdiano in tutta la sua pienezza.
Andrea Estero