Una Fura alla Scala

Un Wagner tecnologico che promette emozioni e sorprese

Una Fura alla Scala Una mano gigantesca, incombente, robotica: è questo il leitmotiv scenico del nuovo Tannhäuser in locandina dal 17 marzo alla Scala, quinta collaborazione fra il maestro Zubin Mehta e la catalana Fura dels Baus, dopo la celebre Tetralogia realizzata fra Firenze e Valenza. Una sinergia inusuale che Carlus Padrissa (regista dell’opera e fra i fondatori della compagnia teatrale) definisce “Mehta-Fura” e che ha ideato l’elemento dominante dell’allestimento milanese. «Carlus mi chiese cosa fosse per me il Venusberg – racconta Mehta, che torna a lavorare con i complessi scaligeri dopo un Trovatore nel 1978 – e io gli indicai il “monte di Venere” che ogni uomo porta sulla mano». La mano è il perno di uno spettacolo multimediale e fortemente cromatico («I colori del Rajasthan, luogo che per tradizioni e storia ci è parso la culla ideale del nostro Tannhäuser», spiega Padrissa) dove, fra grandi piscine e mega schemi, c’è anche un balletto nel secondo atto che sembra uscito da un film di Bollywood. «All’inizio si tratta della mano del destino – prosegue Padrissa, assistito nello spettacolo dallo scenografo Roland Olbeter, dal costumista Chu Uroz e dal videoartista Franc Aleu -, poi diventa quella di Guido D’Arezzo che nel medioevo inventò un sistema di memorizzazione dei canti sulle dita della mano. Quindi è la mano gentile di Elisabeth e nel finale quella spietata del Papa». Interpretato da Robert Dean Smith (Tannhäuser), Roman Trekel (Wolfram), Anja Harteros (Elisabeth) e Julia Gertseva (Venus), lo spettacolo cerca l’interazione fra le arti attribuendo alla musica il ruolo di trait d’union fra i linguaggi. «La Fura è famosa per le sue provocazioni, ma alla Scala non abbiamo voluto “facili” scandali – conclude Padrissa -. Piuttosto abbiamo cercato un’idea di rinnovamento, seguendo lo spirito che mosse Wagner nella creazione dell’opera». Daniela Zacconi

(17 marzo 2009)

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