interpreti C. Bartoli, S. Jo, J. Osborn, M. Pertusi direttore Giovanni Antonini orchestra La Scintilla 2 cd Decca 4783517
Diversa. E diversità, per giunta, di tale portata da mutare radicalmente faccia a un’opera conosciutissima e che diverse interpretazione divenute archetipe hanno per così dire fissato nel marmo del monumento. Mi sovviene di Eduardo, quando in una delle sue meno conosciute commedie sostiene essere il monumento una delle cose più inutili e fuorvianti inventate dalla società per scansare quella molteplicità di pensiero che richiede troppi sforzi. Però ai monumenti ci si affeziona, spesso addirittura mitizzandoli e, di fatto, rendendoli intoccabili. Dunque, questa Norma invece non solo tocca ma, per dirla con Totò, fa pure il ri-tocco: “onde corrucci ed ire”, come e più del solito quando c’è di mezzo Cecilia Bartoli. La quale ha steso alcune note di presentazione, quasi una difesa d’ufficio che per forza di cose fa esempi col passato, prende qualche scorciatoia storico-critica: non avrebbe dovuto. Perché, certo, di filologia si tratta: strumenti antichi, diapason a 430, organico ridotto e quant’altro. Ma come sempre per la gente che va a teatro perché ama il teatro più del cimitero degli elefanti teatrali, la filologia di per sé (fatta salva, ovviamente, la necessità di produrre tutte le note scritte) non fa teatro bensì musicologia: necessaria sempre, ma utile da portare in palcoscenico solo se capace di tradursi in forza teatrale. Altrimenti, è materia di convegni ed esegesi più o meno dotte tra addetti ai lavori.
A me, pare che questa Norma abbia una forza teatrale addirittura dirompente. Due mi sembrano i fulcri su cui poggia tutta l’operazione: tipo di suono e agogica. Uno spettro dinamico amplissimo ma volto a privilegiare il chiaroscuro, il ripiegamento, il vaneggiare lirico o convulso, financo nevrotico allorché sfocia in esplosioni di tanto più brucianti in quanto fulminee. E tempi marcatamente volti alla speditezza.
Come immediata conseguenza, tutti i suoi protagonisti non s’atteggiano, non declamano, non “fanno tragico” come prescrive tutto l’ambaradan della tradizione, complicata per giunta da quel noto atteggiamento tipico dell’opera, per il quale la primadonna deve essere Diva e le Dive, si sa, hanno ad essere sempre e comunque “grandi”. Qui, si scende dal piedistallo del monumento e ci si confronta come tra normalissime mura domestiche. Norma in un tinello di casalinghe disperate? E perché no? Non si può esprimere le stesse cose con accenti diversi? Mi ricordo la sublime Elena Zareschi declamare, con la sua meravigliosa voce debordante d’armonici e ligia a tutte le regole accademiche più paludate, i versi della Fedra di Racine: grandiosa. Poco tempo fa, sull’altra faccia della luna, Isabelle Huppert quegli stessi versi li ha mormorati a fil di labbro con la sua voce asciutta e precisa come un bisturi: grandiosa del pari.
Adesso occorrerebbe infilare una lunga serie di esempi e luoghi topici, verificare le fonti filologiche, istituire esempi. Ma tanto servirebbe a poco. La partita, sempre quella è: si vuole un carattere scavato fino all’infinitesimo, plasmato a partire da un’ottica che personaggi e situazioni vecchi come il cucco (la donna matura e “arrivata” messa da parte per la segretaria al primo impiego) te li squaderna con una verità e una forza sentimentale capaci di farteli sembrare nuovi di pacca; oppure si inseguono i cari, vecchi, rassicuranti fantasmi che ci sorridono dai tanti monumenti, non importa se di marmo pario o di gesso?
Cecilia Bartoli canta splendidamente ma soprattutto rende ogni nota viva, reale, interessante, abolendo di fatto ogni separazione tra recitativo e “pezzo” al fuoco d’un teatro completo e di modernità strepitosa. E non è autoreferenziale: Sumi Jo canta altrettanto bene ed è quasi altrettanto brava sul fronte espressivo, così come John Osborn ribalta come un calzino il solito Pollione macho coglione (il finale, tutto sul filo d’una mezzavoce estatica da duetto d’amore la cui sensualità è alimentata dalla morte incombente, diventa non solo commovente ma persino credibile; magia del teatro), e Michele Pertusi lascia dal robivecchi il solito pontificante e monolitico pretaccio recuperandone l’assai più interessante dimensione paterna. E a guidare il tutto, un’orchestra soffice, elastica, dinamicissima.
Una Norma diversa, dunque, senz’altro. Ma è falso che “non sia Norma”: lo è, invece, come e forse più delle più celebri e celebrate. Può piacere oppure no, com’è sempre il caso delle interpretazioni che rivendicano una loro autonomia dai monumenti antichi: per quanto mi concerne e per quel che vale, torno subito a riascoltarmela, e non per una volta sola.
Elvio Giudici