pianoforte Maurizio Pollini cd Deutsche Grammophon 483 8250
Mi sembra di cogliere qualcosa di eroico nella decisione di Maurizio Pollini, dopo che pochi anni fa aveva riunito in un cofanetto della Deutsche Grammophon l’integrale delle Sonate di Beethoven, di ritornare a registrare le ultime tre chiarendo le ragioni di tale scelta in una recente intervista: “Forse fra qualche anno non mi sarebbe più possibile. Nessuno mi chiederebbe di registrare ancora. Questa sarà la mia ultima esecuzione in disco”. Premonizione di un interprete che, girata la boa dei 78 anni, vuole lasciare una testimonianza “a futura memoria” dell’impegno strenuo con cui attraverso la sua lunga carriera ha esplorato l’universo beethoveniano, sospinto dall’unicità del messaggio drammatico e dalla forza di rottura incarnato nell’ardua scrittura pianistica. Una ricerca inesausta, appunto, che intende proseguire l’esplorazione di quelle ultime testimonianze sfidando la più diffusa convinzione che in esse vada decantandosi una forma di sublimazione; idea che Pollini respinge attraverso una lettura intesa quale approfondimento di quel pensiero che lo aveva guidato fin dai primi passi quando, nella ininterrotta frequentazione delle Sonate di Beethoven, ad attrarlo era proprio la tensione rivoluzionaria di queste ultime, significativamente accostate nei suoi programmi a Boulez, a Stockhausen, a Nono, come a voler stabilire una comunanza d’intenti al di là delle frontiere della storia. La registrazione dell’op. 109 e dell’op. 110 riunite nel cofanetto dell’integrale risale al 1975, una distanza che ora Pollini ha inteso colmare per mostrare quanto lavoro abbia speso nella riflessione lunga quasi mezzo secolo su queste opere che ora possiamo ascoltare in una luce che se da un lato sembra temperare la radicalità di quelle lontane esecuzioni ne acuisce la istigante drammaticità attraverso uno scavo entro le fibre dello stesso linguaggio pianistico, in quell’originalità che diventa tensione estrema, nel ricorrente contrasto dinamico tra “sforzati” e “piano”, come in quei trilli che nell’estasi liberatoria dell’ultima variazione dell’op. 109 e nella smaterializzazione luminosa dell’Arietta dell’op. 111 sfidano i limiti fisici della tastiera per tendere verso un suono nuovo, trasumanato. Limiti che Pollini forza con una concentrazione quasi spasmodica quale termine di contrasto con quel respiro, quella cantabilità affettuosa che scioglie nella stupefazione poetica dell’op. 109 o nel lirismo dell’op. 110 ma pure come drastico contrappasso all’irruzione spiazzante dell’ultima Sonata.
Gian Paolo Minardi
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