interpreti M. Kozena, J. Kaufmann, G. Kühmeier, K. Smoriginas
direttore Simon Rattle
orchestra Berliner Philharmoniker
2 cd Emi
L’involucro sonoro con cui Rattle e i suoi Berliner avvolgono questa Carmen è formato extralusso, ma il contenuto è di plastica. Capolavori di dinamica (le aperture degli atti terzo e quarto, molti interventi corali a partire da quello delle sigaraie), di colori (nel second’atto in ispecie), di ritmo (un Quintetto che in termini d’esecuzione quasi eguaglia quello di Abbado nel prefigurare Stravinskij): ma capolavori costruiti al computer, nota dopo nota, algidi nella loro totale assenza d’ogni sia pur minima traccia di vita teatrale. Impossibile, d’altronde, con la quasi totalità del cast assemblato a partire dalla protagonista.
Se è vero che “i figli so’ piezzi ‘e core”, altrettanto vale per le mogli. Cosa potesse accostare la vocalità tutta ricamini al piccolo punto di Magdalena Kozena – alias signora Rattle – alla scrittura e soprattutto allo spirito di Carmen, è mistero dirimibile solo dal cieco affetto maritale. Voce da zanzarina, e questo magari pazienza. Ma voce senza un colore che uno, quindi monotona come la pioggia. Dinamica pressoché inesistente, piallata in mezzoforti perenni lungo una linea fissa perché bloccata in gola, che giù è aria calda e su solo strilletti, peraltro tutto un tocca e scappa incapace com’è questa emissione di sostenere anche il più inoffensivo degli acuti. Accento che gioca perpetuamente la carta della finesse, come se bastasse non essere plateali per rendere la complessità di simile personaggio: di fatto una rigida signora tutta cianciafruscole accentali, d’eloquio molto chic ma contenuto espressivo a temperatura dell’azoto liquido. Dopo solo qualche minuto, la memoria tornava agli orridi terremoti uterini di Marilyn Horne e quasi quasi vi stendeva sopra un velo di nostalgia, perché se non altro una brada vitalità la mostravano.
Gena Kühmeier riporta Micaela alle figurette scialbe e ciangottanti d’una tradizione decotta: senza neppure cantarla troppo decorosamente come almeno usavano fare gli usignoletti d’antan. All’opposto, Kostas Smoriginas apre i suoni, li vernicia di nerofumo inventandosi chissà mai quale spessore macho, riuscendo invece solo una grottesca caricatura. Ruoli di fianco all’insegna della più piatta routine. Tutto solo, e quindi spaesato oltre ogni dire, il povero José di Kaufmann: tanto espressivo nella ricchezza delle sue sfumature e nel ventaglio amplissimo dei suoi colori, da parere uno squallido gigione o quanto meno un eccentrico ragazzone capitato in una petulante riunione di gente-bene.
Elvio Giudici