pianoforte Dmitri Alexeev 2 cd Narodowy Instytut Fryderyka Chopina NIFCCD 204-205 prezzo 29
Ritmo ternario spesso accentato sui tempi deboli, cromatismi dissonanti e arcaiche armonie modali, quinte vuote evocanti bordoni di cornamusa: a differenza della polonaise cavalleresca e aulica, da gran tempo metabolizzata nel repertorio dei salotti europei, la mazurka d’arte conserva ancora nel primo Ottocento connotati di primitivismo slavo che fanno fremere (di orrore o di sgomenta ammirazione) perfino ascoltatori professionali quali Rellstab e Schumann. Sul piano interpretativo la diatriba continua ancor oggi fra chi vorrebbe uno Chopin fedele perinde ac cadaver alle radici nazional-popolari polacche e chi invece ne rimarca la crescente presa di distanza dal folklore patrio in favore di una sua stilizzazione alchemica che getta ponti verso la rivoluzione anticlassicista e antiformalista del secondo Ottocento: Schumann appunto, e poi Berlioz, Liszt, o magari Wagner.
Vertice riassuntivo di questa parabola paiono le tre mazurke dell’op. 56, datate 1843 e quanto mai diverse per atteggiamento: dal lirismo della prima ai forti contasti drammatici della terza passando per la marcata etnicità della seconda. Ce n’è dunque per tutti i gusti entro un corpus di 55 composizioni, tre in più di quelle conteggiate dai vecchi cataloghi, lungo 23 anni di attività compositiva dell’autore che all’ascolto si traducono in circa 160 minuti di continue sorprese, fra oscuri rapimenti e feconde irritazioni del luogo comune. Non si può dire che al moscovita Dmitri Alexeev, ospite fisso nella giuria del Premio Chopin, mancassero gli stimoli ambientali e nemmeno gl’illustri paragoni discografici cui rifarsi per uscire dal labirinto: dai connazionali Nikita Magaloff (lo Slavo Parigino) e Vladimir Horowitz (Cuore di Tenebra) al pioniere Arthur Rubinstein (l’Aristocratico Umorale).
Onore a lui per aver invece tentato una via personale con un fraseggio di sobria eleganza che smussa le asperità armoniche, fa economia di enfasi e contrasti dinamici ma poco aggiunge alla pagina scritta; certo non quei rubati e quelle estemporanee inflessioni cantabili di cui Chopin, dopo qualche vano tentativo di traduzione semiografica, consigliava ai suoi allievi di carpire il segreto ascoltando i divi del Théâtre Italien di Parigi. Lezione di pianismo assoluto che si avvicina al fluido estetismo di una Martha Argerich prima maniera, senza tuttavia convincere sino in fondo quanto ad autenticità. Da notare che il cofanetto esce con l’autorevole timbro dell’Istituto Nazionale Chopin di Varsavia nel quadro della sua “White Series”, opera omnia con strumenti moderni (in questo caso uno Steinway gran coda) e prassi esecutiva corrispondente. A tempo debito sarà utile confrontarlo con la versione storicamente informata prevista nella collana parallela “The Real Chopin”.
Carlo Vitali