interpreti A. Gheorghiu, P. Domingo, F. Capitanucci, N. Machaidze, A. Esposito
direttore Alberto Veronesi
orchestra de la Monnaie
2 cd Dg 4778367
Che imbroglione, il grande Plassy! Proclami a non finire, all’epoca dell’incisione del Tristano, sull’ultima volta, addio sala d’incisione, addio disco, “tutto tramonta, la montanina mia non torna più” e la nuvola del fumetto recita sob sob. Ed eccolo qui. Fa il baritono vecchio e il tenore giovane, per non annoiarsi tra una direzione d’orchestra e la conduzione di due teatri d’opera. È di prammatica la frase che principia col canonico “riesce ancora”: sì, canta ancora non male, perché in fondo Domingo male non ha cantato mai, non foss’altro per la proverbiale musicalità che sempre l’ha contraddistinto, sicché di frasacce ne fa ascoltare solo una, proprio l’ultima “Son qui, vicino a te”. Però è nonno Loris, e si sente: specie accanto a questa diafana Fedora. Col che va a pallino la drammaturgia dell’opera (debole fin che si vuole, ma è comunque una drammaturgia) basata su di una donna non più giovane sedotta dal classico bellimbusto ragazzotto attratto solo dai suoi soldi. Dovrebbe vibrare, questa gioventù cinica e superficiale, nel timbro e nell’accento: ma assolutamente non se il timbro è senile nel proclamare “Amor ti vieta”, e se nel racconto si ricercano impropri toni eroicizzanti da vecchio condottiero che di pensione proprio non vuole saperne. È un diritto, la pensione: ma in certi casi sarebbe piuttosto un dovere.
Ci sarebbe voluto, è chiaro, Jonas Kaufmann: che avrebbe formato una coppia perfetta con la Fedora della Gheorghiu, e che probabilmente ha ormai raggiunto lo stesso appeal mediatico e dunque pronubo di vendite dell’anziano e stremato collega. Peccato. Perché avrebbe potuto sortire qualcosa di davvero interessante, ove al timbro brunito e allo spessore diafano di questa Fedora si fosse contrapposto un timbro marcatamente giovane, così che il “Vedi, io piango” fosse il piagnucolio d’un bamboccio però sensualmente seduttivo, anziché il tremulo piagnisteo d’un anziano viveur bisognoso di polentine e decotti.
Una Fedora di voce piccola, accettata senza problemi e dunque senza aperture di suono giù per fingersi chissà che, né spinte forsennate per caricare di chissà che gli acuti, d’altronde pochi e quei pochi comunque tutti presenti alle bandiere. Voce piccola che, di conserva a un accento per nulla (ma proprio nulla nulla) altisonante o imperioso o quant’altro il gusto divesco di cent’anni fa potesse escogitare, plasma dunque una creatura debole, un po’ schizzata nel suo passare di continuo da un estremo all’altro, così giustificandosi tanto il caramello della vecchia signora che si sdilinquisce davanti ai ninnoli, quanto la scervellata furia distruttrice con cui scrive lettere mortali. Il tutto, cantato non solo benissimo ma, grazie alla direzione e allo stuolo di parti minori, “recitato” alla teatro di oggi, consegnando al robivecchi tutto l’ambaradan di deliqui, malori, invettive e presunte “nobiltà” di cui, lo si scopre con sorpresa – o almeno mi sorprendo io, confesso – l’opera non solo può fare a meno benissimo, ma ne guadagna enormemente.
Direzione veramente ragguardevole. Nessuna retorica forsennata o contrasti esagitati utili solo a mostrare una struttura musicale al riguardo debole, che veniva appunto indicata quale manchevolezza compositiva ed è invece colpa esecutiva. Al contrario, questi colori spenti e come polverosi, questa stanchezza diffusa, questa nevroticità tutta a fior di pelle, questo gran parlare senza dire niente accennando involi melodici che subito ricadono su se stessi stingendo in declamato cui lo scrostare ogni enfasi restituisce spessore anziché toglierglielo come si potrebbe supporre: è fotografia epocale straordinariamente “giusta”. Musica che avrebbe meritato un testo di Fogazzaro anziché la desolante modestia di quello di Colautti, ma questo è un altro discorso, come anche Puccini sapeva fin troppo bene.
Dicevo dei ruoli minori: altro decisivo punto di forza. Fabio Capitanucci ride divertito cantando tutta a fior di labbro l’infame “Donna russa che è femmina tre volte”, e così l’ironia riesce (quasi) a creare una svagata eleganza impossibile col consueto proclamare a voce spiegata; e quello che davvero conta in De Siriex, cioè il racconto del terz’atto, è un piccolo grande capolavoro: Veronesi lo stacca lentissimo accentuandone i colori cinerei e rarefacendone quanto più possibile gli spessori, mentre Capitanucci lo canta con una linea di morbida compattezza, solcata da accenti appena accennati che materializzano un dover dire quanto si vorrebbe tacere, con un pudore espressivo che arriva molto prossimo alla poesia, e non lo si sarebbe creduto possibile. Molto bene anche Nino Machaidze: Olga è più difficile toglierla dal cliché dell’oca giuliva, ma molto giova cantarla senza petulanza o vitrei stridori. E perfino la servitù di Vladimiro, si copre di gloria: Marina Comparato canta le frasi di Dimitri senza ciangottarle; e Alex Esposito offre, col racconto del cocchiere Cirillo, una vera lezione di quanto possano dizione perfetta e accento di misurata modernità ove si voglia tenere nella giusta tensione – né troppo né troppo poco – un declamato italiano di fine Ottocento.
di elvio giudici