interpreti J. DiDonato, K. Gauvin, M. N. Lemieux, S. Puertolas, T. Lehtipuu, M. Brook
direttore Alan Curtis
orchestra Il Complesso Barocco
3 cd Virgin 07084423
prezzo € 29,40
Alla Piccola Scala nel 1981, Curtis – alternandosi a Roger Norrington – introdusse a quest’opera un pubblico che a malapena ne conosceva il titolo. Era il bellissimo spettacolo di Pier Luigi Pizzi, quello della celebre “colonna matrioska” di color porfido: che, ruotando, ne scopre un’altra al suo interno, e in ciascuna un solo oggetto stilizzato – albero, fregio, capitello, baldacchino – localizza uno snodo della narrazione, interessata quest’ultima non tanto a una vicenda psicologica quanto piuttosto a un’estetica. Curtis è finalmente riuscito a consegnarla al disco l’anno scorso, giovandosi di un aiuto (ignoro se finanziario o solo affettivo, probabilmente entrambi) quanto meno singolare: quello d’una scrittrice/giornalista appassionatissima di melodramma, l’americana Donna Leon autrice di dieci romanzi gialli ambientati tutti in quella Venezia dove vive – e che mostra di conoscere per il dritto e per il rovescio – tradotti in ogni lingua europea tranne l’italiana per suo espresso divieto. Estrosa, costei, senza dubbio: ma quadra, dato che l’estrosità è qualità tipicamente barocca. Il risultato finale, comunque, indipendentemente dal come esso è stato reso possibile, è tra i migliori del gran teatro händeliano.
Divenuta ormai proverbiale, la minuziosa cura musicologica che presiede a ogni cosa Curtis diriga: dalla scelta dell’organico strumentale e vocale alla concertazione, dove la certosina valorizzazione dell’ordito contrappuntistico, lo stile impeccabile delle ornamentazioni, tutto insomma ciò che concerne l’esecuzione è di alto quando non altissimo livello. Ciò che tale esecuzione muterebbe in esperienza teatrale, viceversa, è un tantino più alterno, ennesimo esempio di quanto la troppa scienza rischi di troppo soffocare la fantasia. Ma al riguardo, molto può l’interprete vocale. Qui il cast, salvo un’eccezione (purtroppo ragguardevole), è di quelli capaci d’infondere vita anche al più immobile dei marmi. Joyce DiDonato ha lavorato spesso con Curtis, e ad esempio il suo Radamisto fu personaggio di sicuro riferimento tra quelli händeliani moderni: memorabile senza mezzi termini, adesso, il suo Ariodante. Voce, tecnica, temperamento: tutte qualità portate al massimo da un talento che oggi sopporta ben pochi paragoni, e nessuno vincente. La ragguardevole estensione su due intere ottave (la acuto-la grave) di “Dopo notte atra, funesta”, è padroneggiata senza far percepire sforzo alcuno, andando su e giù con una coloratura sgranata ch’è una meraviglia, luminosa, tutta sul fiato quindi sempre legata e mai aspirata, ma soprattutto provvista di quel suo significato di liberatoria catarsi in virtù d’un accento che v’imprime una radiosa, contagiosa esultanza. Il pathos straordinario che sostiene “Scherza, infida” (uno dei supremi capolavori di Händel e quindi del teatro musicale) e “Cieca notte” (gran bel trillo, per inciso, sfoggia la DiDonato) derivano dal sovrano legato che regge entrambe, dall’accento che – complice una perfetta dizione, le consonanti fatte “suonare” in modo magnifico – v’imprime colori e chiaroscuri sempre diversi ma tutti sfaccettature d’un unico, memorabile personaggio.
Molto brava Marie Nicole Lemieux. Personalmente, Polinesso credo guadagni dall’essere affidato a un controtenore (perché meglio vien fuori la diversità d’una mente ancor più perversa di quella d’uno Jago, considerando che arriva a farsi campione in duello di colei che ha ignobilmente gettato in una mortale disperazione): laddove, specie in un contesto d’anime rese di nobiltà un tantino metafisica dalla derivazione araldica della vicenda, la rigogliosa, “sana” voce d’un mezzosoprano tende a ricondurre tale natura aliena a una relativa normalità. Però l’accento e la velenosa perfidia che l’accento della Lemieux scaraventa dentro la stupenda “Se l’inganno”, sono senz’altro degni di nota, nel quadro d’una linea solida, ben emessa e dalle colorature ragguardevoli. Splendida la coppia Topi Lehtipuu e Sabina Puertolas: voci entrambe delicate, chiare ma luminosissime, screziate da un fraseggio di rara delicatezza che esalta la natura appassionatamente lirica di Lurcanio e Dalinda. Lei, poi, vuoi per la suggestione del percettibile accento spagnolo (le esse!), vuoi per una tal quale affinità d’accento, nel modo che ha d’accendere di radiosa sensualità il lirismo di certe pagine mi ricorda irresistibilmente Teresa Berganza: e complimento migliore mi riuscirebbe difficile concepire.
Dicevo dell’eccezione: il serpente nell’Eden è purtroppo Ginevra. Karina Gauvin avrebbe timbro gradevole e temperamento, cosa quest’ultima importante per non cadere nel personaggio linfatico e rinunciatario. Ma un registro acuto sistematicamente raggiunto solo a forza di spinte di gola; una coloratura tutta spezzettata e ansimante; un acciottolio che fissura di continuo il legato: non si può, con simile deficienza tecnica, dare volto attendibile a questo sublime ma ahimè difficilissimo personaggio.
di elvio giudici