soprano Natalie Dessay
direttore Emmanuelle Haïm
orchestra Le Concert d’Astrée
cd Virgin 907872-2
Sembra di sentirli, certi custodi del cimitero degli elefanti canori, quelli che nello stemma di famiglia hanno il bilancino del farmacista: per pesare ogni notina dopo averla isolata da ogni contesto, confrontarla col maggior numero di morti possibili, tutti felici nel poter dire che no, non ci siamo, questa era meglio, quella nemmeno a parlarne, signora mia oggi non si sa più cantare. E dal loro punto di vista hanno pure ragione. La voce di Natalie è mutata. Più arida, persino un po’ gessosa in certi repentini involi verso l’alto. Più avara d’armonici nel medium, qua e là fa addirittura capolino il sospetto d’una tal quale stridulità. E il registro sovracuto, che tristezza, c’è ancora ma ha perso quell’insolente esultanza che lo rendeva unico, giungendo dappresso alla nota francamente brutta.
Bene, anzi male. Un disastro, dunque, questa Cleopatra? No, un capolavoro. Perché c’è la solita questione dell’accento, a cambiare le carte in tavola e anzi a rivoltarle (col determinante apporto di un’orchestra che canta, colora, respira in perfetto accordo con la voce). Il teatro. Quel complesso di fattori in virtù del quale, per dirne una, i dischi della Callas continuano ad essere campioni d’incassi anche adesso che quanti l’hanno vista e ascoltata dal vivo vanno rarefacendosi per azione di quella tal signora con la falce, e restano solo quelli che in quei dischi “vedono” dei personaggi: la capacità di dare fisionomia immediatamente riconoscibile, personalissima, a qualunque frase, qualunque parola, anche nella più fitta delle colorature, mai autoreferenziali bensì rese parte integrante del personaggio.
Una Cleopatra dalla femminilità tutta di testa, intrigante, che s’insinua leggera leggera e svolazza imprendibile, misteriosa, tutta capricci e sorrisetti, ma che ti dà (sentire questo incredibile “V’adoro pupille”!) la certezza di lussureggianti paradisi nascosti ove per avventura tu riesca ad avvicinarti, e dunque l’insegui con la lingua di fuori, lei fa il broncio e tu ti sciogli (cos’è “Se pietà di me non senti”!): è seduzione davvero la più seduttiva, quella che non promette niente ma lascia intravedere tutto (certe avvinghianti messe di voce…), molto più Audrey Hepburn che Marilyn, femminile come solo può esserlo la somma delle due. E poi quel fattore difficile a indicare in questa o quella nota, ma che sta al cuore d’ogni vera seduzione: una sorta di pensosa malinconia, uno sfinimento quasi doloroso, una dolcezza schiva ma insinuante per ogni dove, che intride da capo a fondo “Piangerò la sorte mia”. L’hanno cantata in molte, e la Bartoli senz’altro meglio. Però questo pianto così sublimato eppure carnalissimo; questa vera e propria extase langueureuse di sconfinata ma anche erotica tristezza, che rende di logica assoluta la rabbiosa esplosione della sezione centrale col grandinare della sua coloratura: questo capolavoro assoluto non di canto in sé ma di canto quale veicolo di un’espressione, di un groviglio sentimentale, questa meraviglia insomma, è solo di Natalie.
di elvio giudici