interpreti M.N. Lemieux, K. Gauvin, R. Basso, E. Barath, F. Mineccia, J. Weisser
direttore Alan Curtis
orchestra Il Complesso Barocco
3cd Naïve 30536
È una bella notizia, almeno per me sempre ammiratore delle sue alte qualità musicologiche, quella d’un Alan Curtis stavolta anche grande uomo di teatro. Formidabili, difatti, impeto e varietà espressiva che pervadono da cima a fondo quest’incisione, effettuata a ruota d’una fortunata serie di recite in forma di concerto, tra cui applauditissima – nonostante il numero eccedente di tagli – fu quella al Théâtre des Champs-Elysées.
Un’incisione, sia detto di passata, che riconferma anche in tempi economicamente tanto tristanzuoli l’importanza insostituibile della sala d’incisione. Una Marie-Nicole Lemieux nei panni di Giulio Cesare, difatti (con la sua presenza che Rossini avrebbe definito “maestosa” e le malelingue taccerebbero di opima), oggi avrebbe vita difficile ove incontrasse uno dei grandi registi della scena contemporanea: ma – ove si decida per una voce femminile in luogo d’un controtenore – si perderebbe così l’occasione d’ascoltare questa parte cantata come in disco probabilmente nessuno ha fin qui saputo. Voce ampia, di splendido colore, così ben emessa da plasmare un legato superbo ma anche da sgranare granitiche, esattissime colorature: soprattutto, però, voce resa ovunque interessante dal ventaglio accentale che, sostenuto da dizione perfetta, sa rendere pieno onore all’evoluzione psicologica del protagonista, da Händel tanto bene tracciata ma ponendo spinosi problemi al suo interprete.
E dunque, dalla vanagloria orgogliosa di “Presti omai l’egizia terra” la Lemieux passa all’ira sempre un filo tronfia di “Empio, dirò, tu sei”; cesella una galanteria ironicamente grossier in “Non è sì vago e bello”, tingendola d’insinuante ironia salottiera in “Se in fiorito ameno prato”, con un dialogo d’impareggiabile finezza col magnifico violino di Dmitry Sinkovsky. Non perde un colpo, la Lemieux, nel grandioso virtuosismo di “Al lampo dell’armi”: logica premessa per la lunga scena sulla riva del mare, quando – dopo un recitativo dalle grandiose campiture tragiche – il condottiero sconfitto effonde un “Aure, deh, per pietà” di aulica commozione, dove l’interprete veramente infonde nel marmo della tragedia antica il respiro di una totale, toccante umanità. Quella stessa che, fatta ormai parte integrante del personaggio, trasforma il profluvio virtuosistico del “torrente che cade dal monte” in una sublimazione d’energia quale potrebbe sprigionare la grande statuaria classica: completando così un arco espressivo sfaccettatissimo, ovvero supremamente teatrale: che lo strumentale inquadra e suggerisce in modo formidabile.
Molto bene la Cleopatra di Karina Gauvin. Qui i paragoni sono ben più impegnativi di quanto potrebbero essere le diversamente modeste Dupuy o Larmore per la superba Lemieux: e nessun dubbio che Danielle De Niese abbia strumento più sontuoso del suo, invero un po’ grigiastro; o che Natalie Dessay e Cecilia Bartoli sfoggino doti da cantanti-attrici ben più sottili e scaltrite. L’eventuale confronto la vede però agguerrita tecnicamente (le insidiose colorature sono sgranate con abilità), e capace d’un fraseggio che con saggezza punta a definire un personaggio più adulto, più testa che carne benché la carne sappia manovrarla con coscienza di causa. Unico appunto, a mio avviso, riguarda il colore timbrico, che la Gauvin ha ricco di ombre nel settore centrale, rendendolo quindi un po’ troppo simile a quello della Lemieux, specie dovendoli solo sentire senza l’ausilio della scena.
Non conoscevo il soprano Emoke Barath, ma mi auguro di riascoltarla al più presto: un Sesto cantato e accentato in modo eccellente, senza alcuna traccia né d’infantilismo eccessivo né di esagerata enfasi (“L’angue offeso” mescola perfettamente energia e ingenuità un po’ naïf), ma anch’esso costruito lungo una teatralissima progressione psicologica. Al suo fianco, Romina Basso si costruisce con Cornelia un capolavoro personale. Voce più leggera di quanto ci si aspetti per tale parte, la domina tuttavia con una morbidezza, un’austerità accorata e intensa, una personalità così prepotente nello scolpire la parola, da rendere pienamente credibile il cadere ai suoi piedi di quasi tutta la fauna maschile dell’opera: questo duetto Cornelia-Sesto, brano forse il più sublime di un’opera peraltro tutta sublime, è una vera e propria gemma.
Poi c’è Tolomeo, che a Parigi era una modesta Mary-Ellen Nesi ma qui torna ad essere – come sempre dovrebbe – un controtenore: e che controtenore! Nel caso di Tolomeo, un’eventuale gara è ancora più aspra essendovicisi cimentati artisti di fortissimo carisma: ma il giovane Filippo Mineccia non la cede a nessuno di loro. Voce ampia ed estesa da un registro centrale di suggestiva brunitura a uno acuto scintillante e sicurissimo; sciorina colorature di eccezionale vigore; ma soprattutto, lavora sulla parola (ed è parola mica per niente fiorentina: si sente, nei recitativi, eccome se si sente!) con una sottigliezza che rende ogni suo intervento un formidabile pezzo di teatro: apice un sorprendente “Belle dee di questo core” nient’affatto languido e snervato come di solito costuma bensì rapinoso, d’una lascivia nevrotica e sbrigativa difficile a ottenersi senza tale dominio prosodico. Che finalmente anche l’Italia posa produrre artista non solo così bravo vocalmente, ma di così moderno taglio teatrale, fa ben sperare: auguriamoci solo di non farne l’ennesimo dono da riservare in esclusiva all’estero.
Infine, quest’incisione presenta finalmente un attendibile Achilla, personaggio a mio modo di vedere determinante nell’architettura drammaturgica dell’opera, eppure di regola tanto sprecato da scelte del tutto inadeguate (ultima delle quali quella improvvidamente scelta da Cecilia Bartoli per il suo spettacolo salisburghese): Johannes Weisser non avrà voce debordante ma regge agevolmente le non facili richieste della scrittura, animate da un fraseggio incisivo ma mai brado, con un lavoro sulla parola capace di fronteggiare quello di Mineccia nei loro frequenti scontri.
Elvio Giudici