chitarra Stefano Grondona
cd Stradivarius 33868
Nel panorama chitarristico italiano la figura di Stefano Grondona spicca, fra l’altro, per il rigore delle scelte interpretative che caratterizzano i sui sporadici ma imperdibili dischi. Dopo un’antologia barocca di qualche anno fa, ora è la volta di Johann Sebastian Bach, autore le cui trascrizioni impegnano da sempre i chitarristi classici (cioè da quando Segovia ha “inventato” la “chitarra classica” all’ombra della prassi concertistica e discografia del pianoforte d’inizio Novecento). Era infatti dai tempi del “canto del cigno” di Julian Bream (Emi, 1994) che la discografia del Bach chitarristico non veniva scossa con tale energia. L’esecuzione di Grondona scaturisce da una visione metafisica del suo strumento, visione che si sforza di superare qualsiasi idioma “chitarristico” in cerca di un’ascesi del contrappunto, del suono e dell’idioma che per la stragrande maggioranza degli altri chitarristi è perenne fonte di frustrazione e ipocrisia. I punti di partenza sono: due chitarre Torres del 1887 la cui “voce” sembra non appartenere a questo mondo, le trascrizioni e le diteggiature certosine dello stesso Grondona, una tecnica appositamente forgiata, l’attenta e precisa analisi retorica e motivica dei brani proposti. Il programma comprende: la Toccata Bwv 914, il Preludio Bwv 999, la Fuga Bwv 1000, il Preludio, Fuga e Allegro Bwv 998 e una scelta di brani dal “Notenbüchlein”. Come per i (pochi) pianisti (Schiff, Hewitt) che hanno saputo metabolizzare l’eredità di Glenn Gould alla ri-scoperta della modernità di Bach, così Grondona impone la sua lezione sulla storia dell’interpretazione della chitarra: auto-evidente e senza nessuno degli infiniti “trucchetti” tipici del “chitarrista classico contemporaneo”. Il disco termina con la trascrizione dell’Aria delle “Goldberg”, brano ancipite perché conclusivo e iniziale al tempo stesso, che funge da elegante guanto di sfida per chiunque se la senta di raccoglierlo. C.F.