direttore William Christie ensemble Les Arts Florissants regia Jan Lauwers 3 cd e dvd Harmonia Mundi
È la registrazione dello spettacolo andato in scena a Salisburgo nell’agosto del 2018. William Christie e le sue Arts Florissants sono meritevoli di avere riproposto il repertorio rinascimentale e barocco inglese e francese in maniera splendida. Più problematica, invece, è sempre stata la riproposta del repertorio italiano. E per il solito motivo: l’inattendibilità della dizione. Non solo. Ma mentre il senso del testo e della frase musicale in inglese e in francese procedono congiunti in perfetta sintonia, quando si tratta del canto italiano, che sia un madrigale rinascimentale o un melodramma del primo barocco, testo e musica procedono per vie diverse, divaricanti. Sfugge a Christie, e sfugge ai cantanti, sia italiani sia non italiani, che l’intonazione della frase musicale deve partire dal senso del testo, anzi, più intrinsecamente, dal suono stesso della frase italiana, che va dunque articolata in tutte le sue componenti ritmiche e sonore, ben distinte e pronunciate consonanti e vocali, e non solo le vocali, rispettando inoltre l’accento dei versi, e mettendo in rilievo le parole che vanno messe in rilievo: l’arte del verso, nella poesia italiana del Cinque e Seicento è capillare, raffinata, significante sillaba per sillaba, come quella francese e quella inglese coeve, con in più una tradizione che risale a tre secoli addietro, e arriva a Cavalcanti e Cino da Pistoia, o la si conosce o meglio non affrontarla. Insomma: questa è una musica che parte dal testo, non una musica sovrapposta al testo. Anche quando appaiono ritmi di danza. Christie, invece, tende a privilegiare ed arricchire la veste strumentale, con un’impostazione che va bene per il melodramma del ‘700, ma non per quello del ‘600. Monteverdi, e ancora Cavalli, concepiscono il melodramma come teatro, recitazione (per la sua Arianna, Monteverdi, morta la Romanina, scelse un’attrice, nonostante gli si offrissero le cantanti più famose del tempo. Vuole un’attrice, non una cantante). Lo sfarzo dello spettacolo di corte è ormai tramontato da quando Monteverdi si era trasferito dalla corte di Mantova alla Repubblica di Venezia. Il teatro non è più spettacolo di corte, ma produzione d’impresario privato. E l’impresario, che non può risparmiare sugli attori, risparmia sugli strumenti. Christie sembra ignorarlo o fraintenderlo. Il risultato di questo fraintendimento è che in questa produzione non c’è un solo momento in cui si ascolti veramente la partitura di Monteverdi. E non solo perché quasi sempre non si capisce una sola sillaba di ciò che cantano i cantanti, ma perché anche quando se ne coglie qualcosa la parola non ha il rilievo che dovrebbe avere. È un’interpretazione di cantanti puri, attenti solo alla voce, all’emissione giusta, al colore.
Peggio ancora vanno le cose per la messa in scena (ai tre cd audio si aggiunge nel cofanetto un dvd): Jan Lauwers affastella azioni, mimi, certamente metaforici, simboli, ma che non c’entrano niente, e anzi disturbano. Al pubblico che non conosce l’italiano ciò potrà pure piacere, e anche agli italiani melomani e vociomani. Ma a chi conosce questo tipo di teatro musicale, simili produzioni generano disappunto e disagio. Dovranno pure ficcarsi in testa, nel resto del mondo, un giorno, che Monteverdi e Cavalli sono una sorta di Shakespeare e di Webster italiani. Anche Shakespeare e Webster scrivono sublime poesia, come Monteverdi e Cavalli compongono sublimi melodie, ma sia gli uni che gli altri hanno di mira la scena, il teatro, la recitazione, senza di che poesia e melodia sono cosa morta. Poiché ogni interprete di questa produzione dà qui il suo peggio, non è il caso di nominarne nessuno.
Dino Villatico
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