interpreti C. Allérat, R. Dolcini, A. Pichanick, A.V. Leite, L. Fernique direttore Jonas Descotte orchestra Les Argonautes cd Aparte 296
Sparita dopo la sua prima esecuzione destinata a un collegio di fanciulle, dopo la sua ricomparsa a fine Ottocento l’unica opera di Purcell s’è presa una perentoria rivincita sulle scene e ancor più in disco, favorita dalla sua durata, perfetta tanto per il Long-Playing quanto per il cd: elenco tra i più nutriti della storia del disco, quindi, che schiera un numero non solo cospicuo ma estremamente vario di voci, dalle modeste alle sublimi e con diversi ricordi memorabili tra quelle solo in concerto o in palcoscenico. Niente facile, pertanto, ritagliarsi un posto d’interesse: e ancor maggior merito va a chi ci riesce, come in questo caso.
Pochissimi strumenti, tutti eccellenti: due violini, viola, viola da gamba, tiorba, clavicembalo, flauto a becco. Opera più che mai da camera, dunque, che la direzione d’un ex controtenore di grande talento e grandissima musicalità svolge con un sapiente mix di leggerezza, trasparenza, incisività, entro un teatralissimo gusto dei contrasti ritmici che non perdono mai di vista l’intento espressivo.
La modesta durata dell’opera ha poi suggerito un’interessantissima commistione: subito dopo il sublime lamento funebre di Dido, tre solisti e il coro intonano una sorta di “invocazione agli Inferi”, ricavata dalla musica di scena di Circe, un mask composto da John Banister (la musica è andata perduta, ma sopravvivono gli arrangiamenti di mano dello stesso Purcell) su testo di Charles Davenant; è inevitabile un leggero calo di livello, dopo
una delle pagine più alte di tutta la letteratura musicale, ma l’interesse supplisce.
Cast eccellente. Nella vastissima panoplia delle voci di Dido, Camille Allérat s’iscrive tra quelle più leggere: molto più genere Véronique Gens che Jessye Norman, cioè, ma con una nervosità d’accento che quasi giustifica il leggero vibrato, e che dosa magnificamente la progressione drammatica, fino a un finale dove la lancinante melanconia è giocata tutta sull’intimismo, che a me pare qualità assai più valida sotto il profilo teatrale. Renato Dolcini ha una linea magnifica, comprensiva di perfetti melismi nella non facile “More ease could die”, capace di splendide mezzevoci (assai rare a udirsi in questo ruolo), spiccato talento nello scolpire la parola: plasma insomma uno dei migliori Æneas della discografia, nonché riesce
a rendere superba scoperta i due minuti dell’aria “Pluto, arise!” nell’epilogo inserito. Delicatissima la Belinda di Julie Roset, e d’imperiosa, aspra incisività lo Spirito del controtenore Léo Fernique.
Elvio Giudici