pianoforte Danil Trifonov orchestra The Philadelphia Orchestra direttore Yannick Nézet-Séguin cd Deutsche Grammophon 483 6617
“Destination Rachmaninov – Arrival”, indica la copertina di questo disco mostrando il giovane Trifonov seduto nella scompartimento del treno che sfoglia una partitura, una colorita sceneggiatura grafica per l’ultima delle tre tappe del viaggio attraverso il Rachmaninov dei Concerti intrapreso da Trifonov con un compagno più che rassicurante come Yannick Nézet-Séguin; impresa di notevole spessore sul piano strumentale quanto impegnativa negli intendimenti di affrontare un autore per tanti aspetti inflazionato e spesso frainteso. Ricordo che Krystian Zimerman nell’accingersi a realizzare i due primi Concerti scrisse che “non si suonano i Concerti di Rachmaninov, si vivono”, affermazione non priva del rischio di lasciarsi trascinare dalle ondate melodiche emotive invece di delineare un discorso più consapevole dove la peculiarità pianistica trovi una convivenza naturale con il tessuto sinfonico. Che è infatti uno degli aspetti seducenti di questa esecuzione, un pianoforte quello di Trifonov che non viene mai soppiantato ma che anche quando è in penombra lo senti sempre presente, come una nervatura irradiata sotto pelle, sempre sensibile quindi alla minima provocazione; ne deriva una ricchezza di eloquio davvero sorprendente, anche perché altrettanto reattivo risulta il gioco di Nézet-Séguin, nel sottrarsi ai tanti rischi della sommarietà effettistica per delibare invece ogni fibra strumentale con quella raffinatezza cui queste partiture sembrano offrirsi naturalmente. E tuttavia tale mirabile trasparenza non sfata quell’ombra insinuante che accompagna come premente fatalità l’inclinazione decadentistica del giovane Rachmaninov, ombra che Trifonov fa sua filtrandola attraverso la trama del suo straordinario pianismo la cui tensione virtuosistica sembra toccare incandescenze rapinose – come nella Cadenza (Trifonov sceglie la più lunga) del Terzo – che non bruciano peraltro la luminosità e il controllo del suono e soprattutto la duttilità della pronuncia, con quegli accenti, quelle sospensioni, quei silenzi; per dire di una messa a fuoco impalpabilmente sospinta da un’ebbrezza trasfigurativa. Una visionarietà, insomma, che attraversa il tracciato che dal tumultuoso e insieme dolcissimo Primo Concerto – la tenerezza con cui Trifonov distilla la semplice poesia dell’Andante – ci porta al monumentale Terzo Concerto la cui complessità (ricordate il lamento di Berman? “Il y a trop de notes!”) il giovane pianista, in intesa perfetta con il direttore, sembra decantare nella sua unità più segreta, poetica. Rivelatrici di tale modo di “vivere” il Concerto le due trascrizioni dello stesso Trifonov, The silver sleigh Bells, mirabile per gli iridescenti riverberi del timbro, e il noto Vocalise, il cui incanto melodico viene come internamente rivissuto, pervaso da una celata drammaticità.
Gian Paolo Minardi
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