Rossini – The art of virtuoso baritone

baritono Giorgio Caoduro
direttore Jacopo Brusa
orchestra Virtuosi Brunenses
cd Glossa 923525

Le rivoluzioni si fanno sempre a tappe, se davvero vogliono riuscire anziché fallire miseramente come accade per quelle del “tutto e subito”. La cosiddetta Rossini Renaissance non fa eccezione. Abbado fece scoprire quanta scienza Rossini avesse riversato anche in orchestra, ci fece andare pazzi sciorinando in una stessa opera Berganza Valentini e Horne, ma accettò anche cosacce per quanto concerneva le voci gravi  (complice Ponnelle, va detto, che dettava legge nelle scelte perché glielo permettevano): facendoci ad esempio credere che Alidoro – ma anche Magnifico; ma anche Mustafà – potesse essere cantato come accettava fosse cantato, nonostante il paradiso strumentale in cui lo immergeva. Poi venne Campanella, e quando Pertusi intonò “Là del cielo” ci si guardò basiti sussurrandoci “ci hanno ingannato”: parallelamente, Samuel Ramey e il duo Merritt-Blake ci pararono davanti cosa potevano e dovevano essere le vocalità giuste per dar senso alle sconosciutissime opere serie rossiniane. Tappa dopo tappa, siamo arrivati ai giorni nostri nei quali un numero sempre più nutrito di voci maschili sta disegnando volti diversi e appunto perciò autentici (più un lavoro teatrale è grande, più modi ci possono e debbono essere per metterlo in scena) ai multiformi personaggi del gran teatro rossiniano: che proprio in quanto teatro e non solo vocal market, richiede un mix il più sfaccettato possibile tra tecnica vocale e talento espressivo. Richiede insomma artisti, e non solo macchine per vocalizzi.
Il titolo scelto per questo recital è emblematico: baritono virtuoso. Baritono che, all’epoca di Rossini, era categoria inesistente. Le categorie sono state croce e delizia dei vociologi d’epoca moderna, in corsa dietro alle intuizioni di grandi interpreti che anche senza rendersene conto andavano disinvoltamente stravolgendo certezze date per acquisite. Si torna sempre a Nostra Dea Maria: che in giorni nei quali era imperativo che la tal voce dovesse cantare il tal repertorio e basta, si permise di dire Io canto Tutto e Voi ascoltate (e, se possibile, capite), passando da Isotta a Elvira tra una Norma e una Fiorilla alternate a Verdi e Donizetti. E i vociologi coniarono allora l’impareggiabile “soprano drammatico d’agilità”, definizione esilarante nella sua antistoricità, ove si tenga conto che nessun soprano, all’epoca di Rossini o Donizetti, poteva permettersi di non avere – e avere al massimo grado – la tecnica della diminuzione (ovvero la coloratura) nel proprio bagaglio tecnico. E le caselle si sono moltiplicate fino al parossismo. Lasciamo stare.
Mi scuso del lungo preambolo, ma m’è sorto spontaneo ascoltando questo recital. Magnifico. Sarà baritono, Caoduro? O basso cantante? O baritono brillante? O basso buffo? Buffo nobile o Buffo caricato, tanto per citare gli incunaboli cellettiani? Chissene. Ha un gran bel timbro brunito, che un’emissione tutta sul fiato (poggiato controllato e proiettato con giudizio) rende ancora più bello nell’ambito d’una linea sempre morbida lungo la ragguardevolissima estensione, cui appunto la tecnica consente variazioni dinamiche continue che quindi generano colori e fraseggi intelligenti, personali, fascinosi. Consente, insomma, di apprezzare quanto e quanto grande autore di teatro sia Rossini.
Alidoro lo dovrebbero affrontare solo i fuoriclasse, ove si voglia renderlo per quello che scrittura vocale e orchestra esigono sia: dopo Pertusi e Esposito, accanto a parecchi impostori, Caoduro ne offre un altro ritratto pienamente attendibile. Come lo è Assur, assai personale e quasi inedito, quantunque affascinante: la gran scena della follia la udiamo da un personaggio sgomento, quasi intimidito, privo affatto di protervia, la cui infernale coloratura percorre quei pazzeschi strapiombi con accenti nei quali la morbidezza dell’emissione è indirizzata verso un’interiorità dolorosa che rende i mostri del rimorso ancora più tragici. Sono pagine tra le più impervie che una voce grave possa proporre alla propria ambizione: riuscire a renderle non solo vocalmente perfette, ma espressivamente originali, mi pare titolo di merito ben notevole. Poi ci sono veri e propri gioielli di fraseggio brillante: la sortita di Dandini, una meraviglia; e una super-meraviglia il duetto Dandini-Magnifico, con un fantasmagorico Fabio Capitanucci che col suo fior di voce rimpalla colore su colore, accento su accento, a proporre un’accoppiata che i direttori artistici farebbero gran cosa a tenere bene a mente. Bellissime l’aria di Fernando (Gazza ladra) e quella di Gaudenzio (Bruschino), di forte impatto drammatico quelle di Ordow e Batone, e molto ben cantata l’implorazione di Guglielmo Tell, l’unica dove a mio parere l’accento potrebbe magari essere lavorato di più.
Magnifico l’apporto di questo complesso ceco che ancora non conoscevo, guidato da un direttore capace di coniugare precisione, stile e acuto senso del teatro.
Elvio Giudici

 

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